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Adottismo e Ingiustizia Epistemica

Tempo di lettura: 8 minuti

Si parla spesso della necessità di cambiare il linguaggio dell’adozione per descriverne meglio le sfaccettature. Iniziamo trovando nuovi termini.

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L’adozione è spesso raccontata come un atto d’amore assoluto: un lieto fine, una rinascita, una “seconda opportunità”.
Ma cosa succede quando questa narrazione diventa un dogma? Quando non c’è spazio per il dolore, l’ambivalenza, la voce degli adottati?

Per descrivere questa visione idealizzata, unilaterale e autocelebrativa dell’adozione, oggi propongo una parola nuova: adottismo.

Cos’è l’adottismo?

L’adottismo è quell’atteggiamento che glorifica l’adozione come gesto salvifico, oscurandone le complessità e marginalizzando chi l’ha vissuta sulla propria pelle.
Implica molteplici aspetti, manifestazioni, atteggiamenti e fenomeni che purtroppo ritroviamo frequentemente in Italia, dove persiste un sistema culturale, politico e mediatico che domina il discorso sull’adozione.

Le caratteristiche dell’adottismo

1. Il potere adulto e l’asimmetria delle scelte
L’adottato subisce le decisioni degli adulti, senza alcuna possibilità di scelta. Nell’adozione chiusa e legittimante, gli viene assegnata una nuova identità e una nuova famiglia. Se l’adattamento fallisce — soprattutto in presenza di problematiche gravi — il minore può essere “ricollocato” in comunità, cioè, restituito. L’adottato invece non può annullare l’adozione, nemmeno se non si trova bene nella nuova famiglia. Il suo diritto di autodeterminazione è sospeso.

2. L’invisibilità del trauma
Nella narrazione adottista non c’è spazio per il dolore. Il trauma dell’abbandono viene ignorato o sminuito, così come il secondo trauma — spesso invisibile — rappresentato dall’evento adottivo stesso. Si parla molto poco della cesura permanente dalla famiglia originaria, né delle sue implicazioni emotive e identitarie. Il dolore dell’adottato è rimosso perché disturba l’immagine salvifica dell’adozione.

3. Il contributo negato degli adottati
L’adottato non viene riconosciuto come persona competente nella propria esperienza. Eppure potrebbe offrire un contributo prezioso alla conoscenza dell’adozione, proprio grazie alla sua prospettiva emica, interna, vissuta (Bergman e Lindgren 2018). Questa esclusione è una forma profonda di delegittimazione epistemica: si toglie voce a chi ha memoria e consapevolezza di ciò che ha vissuto.

4. Strumentalizzazione e marginalizzazione
Nei dibattiti pubblici, politici e istituzionali, l’adottato è spesso assente. Quando è presente, è solo per confermare la bontà dell’adozione come istituto. Se invece esprime una visione critica, viene trattato come ingrato, disturbato o destabilizzante. La sua presenza viene ammessa solo se non disturba la narrazione dominante.

5. Infantilizzazione perpetua e delegittimazione
L’adottato viene infantilizzato anche da adulto, come se fosse figlio per sempre. Secondo Dotson (2011), se non ricalca il punto di vista prevalente, l’adottato non viene ascoltato. L’età anagrafica non conta: viene trattato come emotivamente inaffidabile, troppo fragile per sapere davvero cosa dice. È un silenziamento sistemico.

6. Il soffocamento dell’identità
Michael Calder (2021) parla di soffocamento come atto deliberato di limitare la libertà di chi ha meno potere. Nel contesto adottivo, significa compromettere la possibilità degli adottati di sviluppare autoconoscenza e autodeterminazione. Si soffoca chi potrebbe minare la narrazione ufficiale, rendendo invisibili i processi interiori e le domande identitarie.

7. L’accesso negato alle proprie origini
L’adottato deve pagare di tasca propria — in tempo, soldi, fatica emotiva — per accedere a informazioni che gli spetterebbero di diritto. È considerato incapace di gestire la verità, e deve passare attraverso psicologi, tribunali, mediatori. La legge italiana è particolarmente severa rispetto ai requisiti dell’adottato per l’accesso alla sua storia medica e familiare, in particolare nel caso in cui sia stato partorito in anonimato. Anche nelle adozioni aperte, sono i genitori adottivi a decidere se e come mantenere il contatto con la famiglia biologica. Il diritto all’identità resta condizionato.

8. Se parli del dolore, sei un problema
Chi racconta rabbia, tristezza, senso di ingiustizia o desiderio di sapere viene etichettato come problematico. Si insinua che avrebbe preferito essere abortito o restare in orfanotrofio. Viene spesso accusato di “fare la vittima” o “cercare attenzioni”. È un uso chiaro del tone policing (David ed Ernst 2019): si giudica il modo in cui l’adottato parla, per non ascoltarne il contenuto.

9. Solo gli adulti possono parlare di danno
Quando finalmente si ammette che l’abbandono e l’adozione possono aver causato danni, questa verità è accettata solo se espressa da un genitore adottivo o da un esperto esterno non adottato. La testimonianza dell’adottato non ha valore autonomo: viene sempre filtrata, ridotta o invalidata. C’è tabù e paura di confrontarsi con il vissuto dell’adottato.

10. Gli esperti parlano al posto degli adottati
In convegni, trasmissioni, eventi, si parla molto di adozione e poco con gli adottati. Spesso la scena è occupata da esperti: psicologi, assistenti sociali, giudici, pedagogisti, rappresentanti di associazioni di genitori. L’adottato è ammesso solo se conforme e solo in quanto caso di studio o esempio riuscito. È adottismo istituzionale: quando si parla di te, ma senza di te.

11. Una narrazione eroica e romantica
L’adozione viene presentata come un atto d’amore salvifico. Due adulti generosi salvano un bambino povero e abbandonato, che dovrebbe essere grato per tutta la vita. Questa favola semplificata rimuove ogni ambivalenza e trasforma l’adozione in un lieto fine forzato, che non contempla la sofferenza o i dubbi del figlio adottivo.

12. La fame di “belle storie”
I media, la scuola, le famiglie vogliono sentire storie a lieto fine. L’adottato è benvenuto se racconta salvezza, riconoscenza e amore. Se invece porta una testimonianza ambivalente o scomoda, viene ignorato, escluso o screditato. Si preferisce ascoltare quello che rassicura, non quello che interroga.

13. L’adottato come “fortunato per definizione”
“Sei stato scelto, sei stato fortunato”: è una frase comune, ma profondamente adottista. Trasforma l’adozione in un privilegio e cancella la perdita. Chi non si sente fortunato viene visto come ingrato o inadeguato. In realtà, la fortuna è un concetto che deresponsabilizza e semplifica.

14. Adottismo umanitario
L’adozione viene vissuta e raccontata come un’opera di carità: “togliere un bambino da una situazione difficile”, “salvarlo dall’istituto”. Questo approccio, molto diffuso soprattutto nelle adozioni internazionali, risente di una retorica coloniale e disumanizzante, dove l’altro è visto come oggetto di salvataggio e non come soggetto portatore di storia e dignità.

15. L’interiorizzazione della retorica salvifica
Molti adottati interiorizzano l’idea di essere stati salvati, e quindi devono essere riconoscenti. Questa narrazione, trasmessa sin dall’infanzia da famiglia, scuola e cultura, diventa una gabbia. Porta a negare il proprio dolore, ad autocensurarsi, a vivere con un senso di colpa cronico. Uscire da questa “nebbia” richiede consapevolezza, tempo e coraggio.

16. L’adultocentrismo istituzionale
Il sistema adottivo italiano resta centrato sugli adulti: le coppie, i loro desideri, i loro percorsi. Si parla di idoneità, abbinamenti, sogni di genitorialità. Il minore è presente solo come oggetto del desiderio o destinatario del progetto, non come soggetto attivo con vissuti, bisogni e diritto di parola.

17. Il tabù nelle scuole
L’adozione, a scuola, è spesso trattata in modo stereotipato o imbarazzato. I docenti non hanno strumenti per affrontare identità complesse, traumi, pluralità familiare. L’intercultura viene ridotta a folklore. A volte si chiede al ragazzo adottato di raccontarsi davanti alla classe, esponendolo. Mancano progetti profondi e autentici, e mancano risposte efficaci a discriminazioni e bullismo.

18. “Se critichi l’adozione, è colpa della tua famiglia”
Chi esprime disagio viene invitato a pensare che il problema siano stati i genitori adottivi specifici, non il sistema. Si salva l’istituzione, si colpevolizza la famiglia. Ma il disagio di molti adottati racconta qualcosa di più ampio e strutturale.

19. L’idea che l’amore basti
“Adottalo con amore e tutto andrà bene”: una frase ingenua e pericolosa. L’amore è fondamentale, ma non basta. L’adozione è un processo complesso, che richiede strumenti, ascolto, pazienza, presenza continua. Chi crede che basti amare rischia di sentirsi tradito quando emergono difficoltà.

20. Adottismo tecnico-ignorante
Il sistema spesso si limita a istruire pratiche e controllare requisiti, senza costruire reali reti di supporto. La formazione è generica, il post-adozione quasi assente. I genitori sono lasciati soli, e gli adottati ancora di più.

21. L’illusione del legame immediato
Si immagina che il bambino adottato sia pronto ad amare subito, che abbia fame d’amore e voglia solo essere accolto. Ma non sempre è così. Il legame è un percorso. Il bambino ha bisogno di tempo, libertà, sicurezza per potersi fidare. Aspettarsi amore immediato è ingiusto per lui e frustrante per chi adotta.

22. Adottismo procedurale
L’adozione viene vissuta come un iter da portare a termine, un dossier da chiudere. Ma per l’adottato è solo l’inizio. Quando l’interesse è tutto sull’abbinamento e sull’inserimento, e nulla sul dopo, l’adozione diventa una pratica amministrativa, non un progetto di vita.

23. Nessuno chiede come sta davvero l’adottato, dopo
In Italia non esiste un sistema che ascolti gli adottati adulti. Nessuno chiede loro come stanno, cosa è rimasto dell’esperienza adottiva, cosa continua a servire. Nessuna raccolta dati, nessuna ricerca seria, nessuno spazio di parola. L’adozione viene valutata solo all’inizio, mai nel lungo periodo.

24. L’adozione come risarcimento dell’infertilità
Spesso l’adozione arriva dopo percorsi falliti di procreazione assistita. Non è un problema in sé, ma lo diventa quando il figlio adottato viene caricato di aspettative di guarigione, di senso, di riscatto. Nessun figlio dovrebbe essere una soluzione a un dolore non elaborato.

25. Adottismo assimilazionista
“Adottare è come partorire”, “la nostra attesa è stata una gestazione psicologica”. Queste frasi, se non elaborate, cancellano la storia del figlio. L’adozione non è una nascita. È un incontro tra differenze. L’amore non deve annullare, ma accogliere la complessità.

26. La difesa dell’adozione come istituzione sacra
Ogni critica all’adozione viene percepita come attacco. Si teme che parlarne possa scoraggiare le coppie. Ma un sistema che non si lascia interrogare non cresce. L’adozione va difesa con onestà, non con l’autocelebrazione.

L’adottismo è ovunque: nelle parole, nei pensieri, nei meccanismi invisibili.
È il modo in cui l’adozione viene ancora raccontata e gestita, senza gli adottati.
È per questo che serve un nome.
Perché senza parole, non c’è riconoscimento. E senza riconoscimento, non c’è equità.

Perché serve questa parola?

  • Perché dare un nome è il primo passo per cambiare un sistema.
  • Perché la cultura adottiva, se vuole essere davvero equa, deve ascoltare chi vive l’adozione sulla pelle — non solo chi l’ha scelta o la racconta da fuori.

Gli adottati non sono solo protagonisti invisibili dell’adozione. Sono anche vittime di un’ingiustizia silenziosa, che agisce sulle parole, sul pensiero, sulla possibilità di raccontarsi e di essere creduti.

È l’ingiustizia epistemica.

Questa forma di ingiustizia — teorizzata dalla filosofa Miranda Fricker — ha due volti profondamente intrecciati:

  1. Ingiustizia ermeneutica
    Si manifesta quando le esperienze vissute da una persona non possono essere comprese, né da lei stessa né dagli altri, perché mancano i concetti e il linguaggio necessari per interpretarle.

Gli adottati spesso non sanno come nominare ciò che provano: lo smarrimento identitario, la lealtà divisa, la rabbia sommersa, l’ambivalenza verso la famiglia.

Perché? Perché il dibattito sull’adozione è adultocentrico e la narrazione è già stata scritta dal punto di vista dei non adottati. I concetti si sono formati senza di loro. E così, le parole per spiegare sé stessi restano sconosciute, non dette, non pensabili.

  1. Ingiustizia testimoniale
    Accade quando la testimonianza di una persona viene svalutata o ignorata a causa della sua identità o per ignoranza perniciosa o cieca adesione alla retorica da parte del pubblico sull’argomento.

Agli adottati non si crede. O meglio: si crede solo se dicono ciò che gli altri vogliono sentire.

Se raccontano dolore, abbandono, rabbia o senso di ingiustizia, vengono messi a tacere con frasi come: “Non essere ingrato”, “Guardati oggi, sei fortunato”, “L’importante è che ora sei amato”.

Il loro vissuto viene sminuito perché sono solo figli, solo adottati, troppo fragili per sapere cosa dicono davvero.

Questo doppio silenziamento — sul significato e sulla credibilità — ha un nome: lo chiamiamo adottismo.

Adottismo

s. m. [dal lat. “adoptare” + suff. -ismo, sul modello di razzismo, sessismo, abilismo]

L’adottismo è l’insieme delle pratiche, delle narrazioni e dei meccanismi culturali che marginalizzano gli adottati, imponendo gratitudine, negando loro voce, legittimità e spazio nella costruzione della conoscenza sull’adozione. È quando si infantilizza l’adottato anche da adulto. È quando si fa dell’amore dei genitori una coperta che cancella ogni ferita.

‘Adoptism:’ new term coined by academic sheds light on the marginalisation of adoptees | Researching Reform

https://academic.oup.com/book/32817

Questo articolo ha 2 commenti

  1. Latha

    Cara Alessandra,
    finalmente un blog che esprime il punto di vista dell’ adottato; è tanto vero quanto coraggioso in quanto fa chiarezza sui racconti mainstream sull’adozione, dove gli eroi sono i genitori adottivi, gli adottati sono dei poveri bimbi sfortunati che finalmente possono vivere una vita felice ( come il cavaliere che salva la dama dal drago)!
    Ti ringrazio molto di questo blog
    LG

    1. Alessandra

      Il tuo riferimento al cavaliere che salva la dama dal drago è perfetto per rappresentare quanto la narrazione sull’adozione sia ancora bloccata in uno schema medioevale, eroico, paternalistico, dove l’adottato è oggetto, non soggetto.

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