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PADRI ADOTTIVI

Il ruolo dei padri adottivi nel dialogo con i figli

Tempo di lettura: 4 minuti

Nei gruppi e nel dibattito si vedono poco. Parlano ancora meno. Ma quando ci sono, lo senti.
E io, personalmente, sono sempre molto incuriosita da quello che pensano.

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I padri adottivi non sono molti, è vero.
Spesso lasciano spazio alle mogli, come se l’adozione fosse una questione più materna che familiare.
Eppure, a differenza della nascita biologica, l’adozione è un’esperienza che si condivide fin dall’inizio “in parti uguali”.

I padri adottivi che restano, che osservano, che si fanno presenti – anche solo in ascolto – hanno qualcosa di diverso.
Qualcosa che noi, adottati adulti, notiamo subito.

Di solito, non sono lì per difendere un’idea.
Non cercano conferme, non si raccontano favole, non si aspettano gratitudine.
Molti di loro non hanno bisogno di dimostrare di essere padri: lo sono nei gesti, nella tenuta, nella presenza silenziosa.

Ma quello che mi colpisce di più è che non si sentono minacciati dal nostro dolore.
Non devono correggerlo, né giustificarsi.

A volte penso: se solo potessimo dialogare di più con loro…
Se noi adottati adulti potessimo raccontarci direttamente a loro, senza dover superare il filtro della maternità idealizzata, del bisogno di sentirsi “madri nel cuore”, del voler essere amati a ogni costo, forse la narrazione dell’adozione comincerebbe a cambiare.

Perché i padri spesso non si aggrappano ai figli come salvezza personale. Non li stringono in modo simbiotico, non si identificano totalmente in loro.
E questa distanza sana, questa mancanza di fusione, crea spazio.
Spazio per l’ascolto. Spazio per noi.

Non voglio dire che i padri siano migliori.
Ci sono anche quelli che non reggono e se ne vanno, lasciando tutto il carico alle loro mogli.
Ma molti sono meno attaccati a quell’adottismo che idealizza tutto.

E con loro, paradossalmente, ci sentiamo meno giudicati.
Più liberi di dire: “non vi ho scelti, ho fatto fatica, mi sono sentito fuori posto”.
E loro, magari, annuiscono. Non si offendono. Non si sentono falliti.

Forse è tempo di coinvolgerli di più.
Di invitarli a parlare, a restare, a esporsi.
Perché in quel silenzio maschile che spesso abbiamo criticato, c’è anche un potenziale enorme di ascolto, di apertura, di alleanza.

Io, da adottata, li vedo.
E quando parlano, sento che un pezzetto della narrazione si incrina.
E lì, proprio lì, può entrare la verità.

ℹ️Nota:
So che questo articolo pungerà un po’.
Nasce da una mia riflessione: l’adottismo è un atteggiamento più maschile o femminile?
Io penso il secondo.

L’adottismo – quella narrazione idealizzata e salvifica dell’adozione centrata sull’adulto adottante – ha spesso voce femminile.
Le madri, più presenti nel racconto pubblico, tendono a descrivere l’adozione come un atto d’amore che deve riuscire, deve riparare.
Ma quando l’amore ha bisogno di essere confermato, può diventare sordo al dolore del figlio.

I padri adottivi, meno immersi in questo copione emotivo, parlano meno… ma a volte ascoltano di più. Forse perché non devono difendere un ruolo, né dimostrare che l’amore basta.
E proprio lì, in quello spazio libero, può nascere un dialogo più vero.

⚠️Attenzione però: questo articolo non è contro le madri.
Molte di voi portano sulle spalle un peso enorme, spesso da sole:
ci sono madri che hanno retto l’urto dell’adozione quando i padri non ce l’hanno fatta. Che si sono rimboccate le maniche, che hanno tirato su figli spezzati, attraversando silenzi, crisi, fughe, ricoveri, opposizioni.

Ci sono madri che sanno ascoltare, anche se fa male.
Che restano accanto per tutto il tempo necessario, quando invece i padri si defilano. Che non chiedono amore, ma costruiscono relazione, giorno dopo giorno con grande sacrificio.

Ma io penso che nella narrazione dell’adozione, serva più voce maschile, più padri che restano, più spazio per un ascolto che non si difende.
Anche questa forse è una verità che conosciamo… ma che raramente diciamo ad alta voce.

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