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Il sistema ti fa sentire speciale prima, e sbagliato poi.
Ti seleziona, ti valuta, ti abbina, ti affida. Ma poi ti lascia solo, se qualcosa non va.
Il caso di Douglas Dall’Asta ci lascia sgomenti. È un caso limite, certo. Ma non è un caso unico.
È la punta visibile di un sistema che fallisce nel proteggere chi dovrebbe essere accolto, accompagnato, compreso.
Nell’adozione si dice spesso che viene posto “l’interesse del minore al centro”.
Ma troppo spesso quel centro è occupato dalle aspettative degli adulti.
Douglas è stato restituito dopo appena quattro giorni.
Un tempo troppo breve anche per l’adattamento forzato che l’adozione legittimante comporta, troppo breve per costruire una qualsiasi relazione, troppo breve per un giudizio o una resa.
Molti si scandalizzano e gridano: “genitori cattivi!”.
Ma la verità è più scomoda: non bastano i buoni sentimenti. Non bastano le intenzioni. Serve una cultura dell’adozione capace di sostenere davvero.
I genitori non sono mostri. Sono adulti impreparati, illusi da narrazioni zuccherate, lasciati soli a fronteggiare un trauma che non sanno nemmeno nominare.
Al momento dell’adozione, Douglas era un bambino di 9 anni, con una storia e una personalità già strutturata dal dolore.
Ma forse ci si aspettava un figlio grato, affettuoso, “salvato” e “riparabile”, come dice la retorica adottista.
Forse si pensava che avrebbe portato più luce che ombre.
Invece è arrivato con la sua realtà, con il suo passato, con tutto ciò che l’adozione spesso preferisce ignorare.
Anche dopo i corsi e i colloqui, non tutti riescono a interiorizzare che l’adozione non è una cura per il vuoto procreativo o quello esistenziale.
Un figlio adottato arriva con la sua storia, non con una bacchetta magica per rendere felice una coppia.
E quando quella storia si manifesta attraverso paura, rabbia o chiusura, troppo spesso viene letta come un problema da correggere, anziché come un dolore da comprendere. E allora ci vuole lo psicologo.
Che una “resa” sia possibile e accolta in tribunale dopo soli quattro giorni è inquietante.
Ma non è solo una decisione giudiziaria: è il riflesso di una cultura che tratta l’adozione come reversibile quando non la si regge.
Come se davvero si potesse restituire un figlio, come fosse un prodotto.
In tutto questo, resta assordante il silenzio dei servizi.
Dove erano i professionisti in quei giorni?
Chi ha sostenuto Douglas?
Chi ha aiutato i genitori a reggere l’urto del reale?
Chi si è assunto la responsabilità di accompagnare, spiegare, mediare?
Douglas non ha chiesto pietà.
Ha chiesto riconoscimento: “Non sono stati solo i miei genitori adottivi a fallire. Il sistema ha le sue responsabilità.”
Allora non serve scandalizzarsi o inveire contro i genitori adottivi.
Serve guardare dentro al sistema adottivo e cambiarlo.
Serve uscire da quella narrazione che coccola gli adulti e zittisce i figli. Serve uscire dall’adottismo.
Chi oggi scopre il caso di Douglas con stupore o indignazione, forse non ha ascoltato chi dice da tempo che adottare non significa “diventare finalmente genitori”.
Punto.Adozione ha scelto infatti di fare un’informazione diversa, vera, reale. E di mettere al centro chi finora è stato messo ai margini: gli adottati. Le loro storie. Il loro sentire. I loro diritti.
Douglas non è l’unico adottato che si è tolto la vita perché non si è sentito accolto. Ne conosco altre di queste vicende che in Italia passano in sordina. Non esistono statistiche o studi in merito. Ma le ricerche americane lo dicono chiaramente: gli adottati hanno un rischio di suicidio quattro volte superiore alla media.
Tanti portano dentro un dolore silenzioso, che non fa notizia.
Non è solo questione di “casi estremi”.
C’è un’intera zona grigia fatta di adottati che non si tolgono la vita, ma fanno fatica a viverla.
Persone che si trascinano in una stanchezza quotidiana, muta, fatta di nodi non riconosciuti, identità confuse, pesi ed emozioni che nessuno vuole ascoltare.
Vivono in una società che non accoglie la complessità delle loro storie, che chiama l’adozione “un gesto di grande amore e di altruismo”, che include solo a parole.
E a volte in famiglie che rincorrono soprattutto la parte “bella” dell’adozione, quella da festeggiare nell’anniversario o da postare sui social.
Genitori che, nonostante si dica che oggi siano più informati e aperti, in fondo “meglio non scavare troppo”, che rivendicano la loro serenità dietro un “take it easy”, e che se un figlio soffre pensano che faccia un po’ la vittima.
Raccontare la verità nell’adozione, come fa Punto.Adozione, non significa essere contro il sistema. Significa volerlo più umano, più consapevole, più capace di accogliere davvero la complessità delle storie adottive. Significa volerlo migliore.