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Figli di un Dio minore

Una riflessione sull’essere adottati, tra interruzioni, attese e la difficile conquista del sentirsi figli.

Tempo di lettura: 4 minuti

Dicono che abbiamo vinto alla lotteria.
Che siamo stati scelti, sognati, amati al primo sguardo, accolti col cuore.
Che adesso siamo figli, e tanto basta.
Ma la verità è che, prima di tutto, siamo stati figli di un Dio minore.

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Siamo arrivati in adozione perché siamo stati dichiarati adottabili.
Siamo diventati adottabili prima ancora di avere il tempo o il diritto di essere figli nella nostra prima casa.
Siamo stati spediti altrove, in un punto qualunque del mondo. Abbinati, assegnati, collocati per risolvere un problema che la società stessa aveva contribuito a creare: madri lasciate sole, marginalizzate o travolte dalle proprie fragilità.

Ma nel frattempo eravamo bambini veri, con legami – anche minimi ma reali – interrotti, bisogni inesprimibili, parole che nessuno ha mai aiutato a far uscire.
E dentro, spesso in silenzio, cresceva un senso di vergogna: come se essere nati da un Dio minore ci rendesse in difetto, sbagliati in partenza.

Essere figli dovrebbe essere un fatto naturale, non un risultato da raggiungere.
Ma per noi non è un dato di partenza.
Non siamo figli da subito: abbiamo dovuto diventarlo. E, spesso, non senza fatica.

Chi ci guarda da fuori non lo capisce.
Per loro, il problema dell’abbandono è risolto: ora sei figlio. Punto.
Ma tu lo sai: essere chiamato figlio non è la stessa cosa che sentirsi figlio.
Sentirsi figlio legittimato di quella nuova famiglia che, inevitabilmente, con il tuo dolore metti alla prova.

E allora comincia il paradosso.
Se ti senti un estraneo, non sei riconoscente.
Se chiedi tempo, sei oppositivo.
Se non chiami “mamma”, sei anaffettivo.
Ma nessuno si domanda cosa voglia dire diventare figlio quando l’infanzia è già stata sottratta o spezzata.
Quando si cresce con la colpa muta di non essere stati tenuti, di non essere stati abbastanza per essere amati da chi ci ha messi al mondo.

Ci è stato chiesto di entrare in una famiglia, di adattarci e rispondere in tempi congrui a un affetto non richiesto, per non offendere una coppia che ci apriva la sua casa, di assimilare una narrazione che metteva davanti l’amore.
Ma come puoi accogliere l’amore,
se intanto il tuo lutto non è riconosciuto,
se stai ancora imparando a sopravvivere alla perdita,
se arriva una nuova mamma che spesso sovrappone il suo bisogno al tuo dolore?

Ci si aspetta che chi arriva tardi diventi figlio e accolga senza esitazioni, ricambi, si fidi.
La verità è che essere figlio, per un adottato, è un processo faticoso, spesso solitario.
Un percorso a ostacoli dentro relazioni nuove che si aspettano presenza, affetto, riconoscenza, prima ancora di sapere chi siamo.
Che sperano che il nostro corpo e la nostra mente smettano di ricordare.

Ma i ricordi restano.
Restano gli odori, i sapori, i vuoti, i frammenti.
Resta il desiderio che, se le cose fossero andate diversamente,
saremmo stati figli senza dover passare per l’adozione.
Perché questa è la normalità, non quella che ci chiedono di fingere da adottati.

È una stortura invisibile quella di creare figli a posteriori.
Costruirli quando sono già abitati.
Chiedere normalità quando ancora si stanno contando i vuoti.

Eppure… siamo comunque figli.
Nel nostro modo strano, sfalsato, doloroso.
Siamo figli che camminano in ritardo sulla linea del tempo.
Figli che ci provano. Imparano.
Che non vogliono più sentirsi figli di un dio minore,
ma solo figli… reali, sensibili, complessi.
Con il diritto di diventarlo nel proprio tempo, con i propri strumenti.
E con chi saprà restare, anche quando non ci sentiremo ancora “figli”.

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