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Quando un’adozione si può definire “riuscita”

Tempo di lettura: 4 minuti

Ci avete fatto caso?
Ogni tanto, timidamente, qualcuno alza la mano, prende fiato e racconta una storia di adozione difficile. Che sia un genitore o un figlio, il racconto si snoda tra crisi che ritornano, sofferenze tenute dentro, notti che non finiscono, coppie che non reggono, figli che vogliono andarsene, che non si sentono davvero parte. A volte si rompe tutto. E si resta senza parole, senza strumenti, senza famiglia.

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Perché l’adozione non è un miracolo, né una costruzione armoniosa garantita. Non è nemmeno una certezza.

Vale allora la pena chiederselo: che cosa vuol dire, davvero, che un’adozione è riuscita?

La narrazione edulcorata non aiuta. Quella che dice che basta l’amore, che adottare è un gesto altruistico, che ci sono tanti bambini da salvare. Quella che paragona l’adozione a un parto del cuore. Rassicura chi osserva da lontano, o chi attraversa il percorso senza rimettersi troppo in discussione. Ma lascia indietro chi fa fatica. Chi si aspettava qualcosa di diverso. Chi si sente sbagliato, perché non rientra nel racconto adottista dominante.

Io credo che un’adozione riuscita non si misuri con la rapidità dell’intesa né con l’armonia esibita.
È riuscita quando si regge il legame, anche quando fa male.
Quando si resta, nonostante il rifiuto, senza aspettarsi riconoscenza né sentirsi in colpa per la stanchezza.
Quando si cresce insieme, anche in modo diseguale.
Quando si continua a cercare un senso, anche se sembra sfuggire.
Quando nessuno ha vinto. Ma nemmeno nessuno si è arreso.

L’adozione è un percorso, non un traguardo.
E percorrerlo è ciò che conta, anche quando si cade, ci si perde, ci si chiude. Anche quando non ci sono risposte.
Perché esserci, restare, tenere, in certi momenti è già moltissimo.

L’adozione è conflittuale per sua natura.
Non potrebbe essere diversamente. E quando sembra tutto troppo quieto, è lecito chiedersi a quale prezzo. Spesso quel prezzo è il silenzio di una delle due parti. Silenzio che prima o poi chiederà di essere ascoltato.

L’adozione non nasce da un desiderio condiviso, ma da una perdita. O più perdite. Si costruisce a partire da una frattura.
C’è prima un atto giuridico, poi un assestamento culturale, infine – se ci si lavora davvero – una relazione affettiva. Ma quando si mettono insieme due pezzi di storie già spezzate, non è detto che si incastrino.

L’adozione non è un fatto naturale. È un tentativo, spesso faticoso e coraggioso, di creare legami dove la vita li ha negati.
Un incontro un po’ forzato tra un figlio che non ha scelto e un genitore che, spesso, è arrivato lì dopo altri percorsi interrotti.
Non si parte mai in equilibrio.
E il conflitto, se accolto, può diventare il punto di partenza.

Nei gruppi di automutuoaiuto incontro spesso genitori attraversati da angoscia, vergogna, senso di fallimento. Le cose non sono andate come speravano. Ma chi ha detto che debbano andare bene per forza? Chi ha stabilito che l’adozione debba somigliare a una favola?

Io ho vissuto entrambe le esperienze: una buona adozione come figlia, alla quale ho contribuito con adattamenti, silenzi, rinunce. E un’adozione complessa come madre, accanto a una figlia che ha fatto fatica a adattarsi a un mondo così diverso da quello che conosceva.
Che cosa ha determinato due esiti così diversi nello stesso contesto? Difficile a dirsi.

So però che l’adozione è un cammino imprevedibile.
Fatto di persone uniche, aspettative incrociate, fragilità che si sommano.
Anche con i migliori abbinamenti, anche con la preparazione più attenta, nessuno può prevedere come andrà.

Ed è proprio lì, nell’imprevedibilità, che si apre lo spazio per crescere.
Non quando tutto fila liscio, ma quando ci si perde e si prova a ritrovarsi. Quando si cade e ci si rialza insieme.
È nei momenti di frattura che genitori e figli si incontrano davvero: ciascuno con le proprie paure, i propri limiti, le proprie verità.

Il fallimento adottivo, in fondo, non esiste.
Perché fallimento implica colpa, e in adozione non sempre c’è un colpevole.
A volte c’è solo la vita, con le sue traiettorie storte, i suoi incastri mancati.
Accettarlo, perdonarsi, riconoscere che si è dato tutto il possibile, è un atto di verità e di umanità.

Forse è proprio da qui che può nascere una nuova narrazione.
Più vera, più rispettosa, più utile.
Che non insegua il lieto fine, ma il senso.
Che non premi la perfezione, ma l’onestà.
Che accolga anche le storie che non sono andate come si sperava, senza giudizio.
Che ci aiuti a crescere, insieme, nel tempo che serve.



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