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Tuam, i bambini rubati

Perché non li hanno nutriti? Perché non li hanno salvati?

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In questi giorni, in Irlanda, sono cominciati finalmente gli scavi nel terreno che per decenni ha custodito i corpi di centinaia di bambini morti nella Mother and Baby Home di Tuam, gestita da suore cattoliche. Non è una scoperta. È la conferma, straziante, di ciò che si sapeva dal 2017. Ma a causa di normative mancanti, non si è potuto procedere prima.

Bambini nati da madri non sposate. Bambini “nati nel peccato”, secondo la dottrina dell’epoca. Bambini che non venivano chiamati per nome. Bambini lasciati senza cure, senza latte, senza calore. Bambini morti di fame, di tifo, di abbandono.

Perché non li hanno curati? Perché non li hanno nutriti?

Perché non venivano considerati bambini come gli altri. Perché erano la punizione vivente per un “errore” femminile. Perché la vergogna collettiva pesava più della vita. Perché la Chiesa si arrogava il diritto di giudicare, e lo Stato taceva.

Eppure, avevano fame. Avevano freddo. Avevano una madre, che spesso non poteva proteggerli, ma li aveva partoriti.
Molti sono stati dimenticati. Alcuni adottati. Troppi sepolti in un ex pozzo nero.

Oggi fortunatamente i bambini non vengono più lasciati morire e gettati nei pozzi. Ma le madri vulnerabili – nubili, giovanissime, povere, straniere – vengono ancora lasciate sole.
Lo stigma non è sparito. Si è solo fatto più sottile. L’aiuto istituzionale c’è, ma spesso dura poco. Poi cala il sipario. E allora, troppo spesso, si sceglie la via dell’allontanamento o dell’adozione senza aver fatto abbastanza per sostenere quella madre a tenersi il suo bambino.

A Tuam i bambini morivano. Oggi vengono “salvati” da coppie o single che si mettono a disposizione. Ma quanti sarebbero potuti restare nella loro famiglia, se qualcuno avesse aiutato davvero le loro madri?

Non basta commuoversi davanti al passato. Bisogna fare spazio a domande scomode: quante storie di separazione, anche oggi, potrebbero essere evitate? Chi decide quali madri sono “sufficienti”?
Che Tuam ci lasci almeno questo: non dimenticare il legame originario, non giudicare le madri, e non chiamare “scelta” ciò che nasce dal silenzio e dalla solitudine.

E sì, lo so. Ci sono situazioni estreme: donne che arrivano sotto effetto di sostanze, confuse, che rifiutano il figlio, che magari hanno cercato di fargli del male per sbarazzarsene. Esistono. Ma non tutte le madri fragili sono pericolose. E non tutte le storie difficili portano al rifiuto. In troppi casi, ancora oggi, si sceglie la separazione senza aver costruito prima una vera alternativa. Senza aver tentato, davvero, di custodire quel legame.

In Svizzera, una madre può partorire in confidenzialità, ricevere aiuto medico e psicologico, ed essere accompagnata nella decisione senza pressioni. I sostegni economici arrivano fino ai sei anni del bambino. Esistono “culle per neonati” regolamentate, ma anche percorsi di autonomia e inclusione sociale per madri sole.

In Italia, è vero che si tutela il legame di sangue e gli aiuti ci sono, ma sono: frammentati (dipendono dalla regione, dall’ASL, dal singolo operatore); brevi (poche settimane dopo il parto); carichi di giudizio (se sei sola o sbagliata, rischi subito la segnalazione); limitati nei fondi (assegni modesti, iter complessi). Il consultorio, se funziona, può fare tanto. Le case madre-bambino esistono, ma sono poche, selettive, e spesso già orientate verso l’adozione.

Quello che servirebbe davvero è un sistema capace di prendersi cura prima della madre: che la accompagni senza fretta, senza pressioni, offrendole alternative concrete, dignitose, sostenibili nel tempo. Solo allora la sua sarà una scelta autenticamente libera.
Oggi molte madri, sulla carta, “scelgono” di dare in adozione. Ma è una scelta fatta nel vuoto: di sostegno, di fiducia, di possibilità. È come se lo Stato dicesse loro che il legame di sangue è sacro… ma solo se riesci da sola, subito, e senza sbagliare. Altrimenti, non vale.

E quando l’adozione arriva come soluzione, non possiamo dimenticare che le sue conseguenze le portano poi i bambini, per tutta la vita.
Per ogni madre lasciata sola, c’è un figlio che dovrà fare i conti con un’origine spezzata, con domande senza risposta, con un senso di rifiuto che nessuna “nuova famiglia” può cancellare da sola.
Così si crea una catena di sofferenze: invisibile agli occhi, ma profondissima nei cuori.
E allora forse la vera prevenzione è questa: prendersi cura, prima. Delle madri. Dei legami. Della dignità.

Ci insegna qualcosa, Tuam. Ci insegna che lo stigma non uccide solo nel passato. Uccide anche oggi, quando chi nasce “fuori norma” è considerato un problema da risolvere, qualcuno da collocare. Quando la madre fragile è vista prima come rischio per il bambino che come persona da aiutare.
Non vogliamo più bambini dimenticati. Ma per evitarlo, dobbiamo iniziare a vedere e sostenere davvero le madri. Prima e dopo.

Questo post non è una critica verso chi lavora nei servizi. Al contrario, molti operatori si spendono con dedizione e competenza: durante i colloqui post-parto cercano in ogni modo di aiutare la puerpera, di informarla sugli aiuti disponibili, di incoraggiarla a tenere il bambino. Il problema non sono le persone. Il problema è il sistema che offre aiuti discontinui, limitati nel tempo, con percorsi troppo fragili per reggere davvero la complessità delle vite.

Per chi vuole approfondire la storia di Tuam e delle altre Mother and Baby Homes in Irlanda, c’è il documentario Stolen (2023), diretto da Margo Harkin. Un lavoro coraggioso, che dà voce alle sopravvissute e ricostruisce l’orrore con delicatezza e precisione storica.
In Irlanda è uscito nel 2023. In Italia, invece, non è mai arrivato. Chissà perché…

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