Fratelli, sì. Ma non sempre è facile sentirsi uguali, se uno è figlio naturale e l’altro adottato. Una riflessione sulle famiglie miste partendo dalla famiglia Sinner, celebrata nelle cronache dopo la vittoria di Jannik.
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Prima di tutto, complimenti sinceri a Jannik Sinner. È un campione straordinario, dentro e fuori dal campo. E quello che sto per dire non riguarda lui né la sua famiglia, ma il modo in cui quella famiglia viene raccontata pubblicamente dai media, le reazioni social a quel racconto e ciò che tutto questo può innescare – soprattutto in chi, come me, è figlia adottiva e cresciuta in una famiglia mista.
La particolarità della famiglia di Sinner – un figlio adottato e un figlio biologico arrivato dopo – non è affatto rara. Anch’io sono cresciuta così, e così sono cresciuti i miei figli. Molti adottati che conosco vivono questa stessa realtà.
Nei gruppi social sull’adozione è circolata la foto di Jannik con il fratello Mark.
Jannik: alto, atletico, sorridente, trionfante, con la coppa in mano.
Mark: più basso, più contenuto, con un sorriso che – impressione personale – sembra un po’ forzato. Ma soprattutto: una postura che parla. Quel modo antico che tanti adottati conoscono: cercare di occupare meno spazio possibile.
In alcuni gruppi social c’è stata indignazione per la didascalia usata dalla stampa: “fratello adottivo”.
Qualcuno ha commentato: “No, sono fratelli e basta.”
Io, invece, non ho problemi con la parola “adottato”: è un dato di fatto.
La questione delle famiglie miste – e se si parlasse di più con gli adottati lo si saprebbe – è più profonda.
Non riguarda la parola “adottivo” in sé, ma lo zucchero che ci si mette sopra.
E il fatto che spesso manchino all’appello le fatiche, le tensioni invisibili, i non detti.
Sicuramente nella famiglia Sinner è filato tutto bene, non mi azzardo a dire il contrario. Ma in base alla mia esperienza e a quanto osservo altrove, crescere accanto a un fratello biologico dei propri genitori adottivi non è facile. Non è esente da confronti, da dubbi, da domande dolorose:
“Se non foste stati in difficoltà… io sarei mai arrivato?”
“Tenete a me quanto tenete a lui?”
Quando il figlio biologico arriva davvero – magari più tardi, magari più simile a loro, magari perfetto agli occhi del mondo – il confronto diventa inevitabile.
Valgo davvero anch’io?
Non è colpa di nessuno. Ma è una realtà che pesa.
Pesa nei corpi, nei sorrisi trattenuti.
Pesa nella postura di chi, pur volendo appartenere, si sente in secondo piano.
E nei gruppi social, dove si esaltano gli adottati famosi o le famiglie “riuscite”, si rischia di far sentire inadeguati proprio quelli che ogni giorno faticano a tenere insieme tutto.
Chi non ha la foto perfetta. Chi vive una famiglia vera, fatta anche di silenzi, smagliature, sentimenti complessi.
Secondo quanto riportato dalla stampa, Mark oggi fa il vigile del fuoco. Non è un campione sportivo. Da spettatore, preferisce la Formula 1 e pare vada raramente a vedere il fratello giocare.
Da bambini giocavano insieme a tennis, poi Jannik ha spiccato il volo e Mark ha smesso.
Io penso che questa parte della storia – se confermata – dica molto.
Perché alcuni adottati faticano a sentirsi “quelli riusciti”,
soprattutto se hanno fratelli che hanno avuto una partenza regolare, non in differita come loro.
Eppure, diventano adulti che si prendono cura degli altri.
Fanno lavori silenziosi, utili, dignitosi: pompieri come Mark, educatori, infermieri, insegnanti come tanti amici e amiche che ho.
Molti adottati diventano persone che aiutano, anche se nessuno li applaude.
Ed è lì che va accesa un’altra luce.
Non solo sugli imprenditori, i cantanti e gli atleti famosi.