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Quei poveri genitori adottivi

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Ci sono genitori che, per permettere ai propri figli di partecipare alla vita, devono prima spiegare.
Spiegare chi sono quei figli.
Spiegare che non sono partiti dallo stesso punto degli altri.
Spiegare che non è che non ce la fanno, è che hanno bisogno di più tempo.
Spiegare perché a volte si bloccano, perché esplodono, perché sembrano sempre “fuori luogo”.
Spiegare fino allo sfinimento.

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Succede a scuola, ogni volta che si cambia ordine scolastico o professore. Succede nello sport, all’oratorio, nei centri estivi, nei laboratori, nei corsi, nei tirocini, ovunque.
Per questi genitori, ogni occasione di formazione, ricreazione o socializzazione diventa un campo minato.
E ogni volta devono ricominciare da capo a spiegare.
O almeno ci provano.

Magari già al primo colloquio hanno avuto il coraggio di essere sinceri. Hanno detto che il figlio ha una storia difficile. Che ci sono traumi. Che fa fatica a gestire le frustrazioni. Che l’autostima è fragile. Ma le parole, lo sappiamo, volano.
Soprattutto se chi ascolta non ha mai avuto a che fare con famiglie adottive, con fragilità profonde, con percorsi che non si sistemano con un maggiore impegno, un buon voto, una regola in più o una punizione ben assestata.

E allora succede che, appena quel ragazzo o quella ragazza non rientra nello standard, scatta la chiamata.
“Dovremmo parlare di alcune criticità che riguardano sua figlia.”, “Forse dovrebbe pensare a un altro tipo di attività per suo figlio…”
“Guardi, per noi non è solo adozione.”

Ma la peggiore è: “Lei ha altri figli?”
Una domanda rivolta quasi sempre alle madri.
Come ad augurarsi che non faccia danni su altri, oppure a sondare se ha già “esperienza” materna.

Se ripenso a quante chiamate ho ricevuto… Spesso proprio quando tutto sembrava andare liscio.
E di nuovo: sua figlia non va bene, dovrebbe cambiare posto.
Ma ancora? E dove la metto? Cosa le faccio fare?

Ogni volta la stessa storia:
“Sì signora, capiamo le fragilità di sua figlia, però…”
“E non è giusto che sia favorita rispetto ai suoi compagni.”
“Ci sono delle regole da rispettare.”

E mentre parlano, lo vedo. Lo sguardo che mi passa attraverso. Che mi scandaglia. Cercano in me la spiegazione. La radice del problema. Come se fosse colpa mia.
Come se bastasse guardarmi a fondo per capire perché mia figlia è così.
E se non trovano nulla, insistono.
Fanno domande provocatorie, nella speranza che mi arrabbi, che perda la pazienza.
Per poter poi dire: “Tale madre, tale figlia.”

Il paradosso è che il genitore non cerca favoritismi, né scorciatoie.
Chiede uno sguardo più umano.
Chiede che chi ha il potere di includere, scelga di non escludere.
Chiede di non far vivere a suo figlio l’ennesimo fallimento.

Spesso vuole solo capire a che punto è il figlio.
Chiede alleanze, non giudizi. Vuole sapere: “Cosa possiamo fare per farlo partecipare almeno un po’? Quali strumenti avete? Cosa potremmo tentare insieme?”
Ma si ritrova davanti rigidità, requisiti minimi da rispettare.
Parametri che chi non è “standard” non riesce nemmeno a sfiorare.

Nel frattempo, il genitore mette toppe, costruisce ponti fragili, sorride quando vorrebbe urlare, negozia ogni piccolo spiraglio, pietisce.
Lo fa per permettere al figlio di restare. Di esserci.
Di non essere sempre quello “troppo”.
Troppo sensibile, troppo aggressivo, troppo indietro, troppo strano.

Perché dietro ogni comportamento che sembra “sbagliato”, c’è una storia. E dietro ogni genitore che sembra troppo emotivo o troppo difensivo c’è qualcuno che sta tenendo in piedi un pezzo di mondo.

Ma non si racconta mai la fatica e la stanchezza che lo attraversa.
La lucidità che serve per restare in piedi e per crederci ancora.
La solitudine di chi, ogni giorno, combatte per un diritto semplice e fondamentale: che suo figlio possa partecipare alla vita, anche se la vita per lui non è mai stata semplice.

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