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Madri adottate, figli strappati

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Personalmente so di tre casi in cui, in seguito a una separazione conflittuale, è stato tolto un figlio a una madre adottata.
Mi chiedo come si possa togliere a una donna con una storia adottiva il proprio figlio? Con che coraggio? Con che criterio?

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Per chi è stato adottato, diventare genitore è qualcosa che va oltre la genitorialità in senso stretto. È la scoperta, forse per la prima volta, di un legame genetico, di un’appartenenza biologica che non si è mai potuta sperimentare prima.

È una rivoluzione silenziosa ma profonda: finalmente si è imparentati con qualcuno per sangue. E questo, per chi è cresciuto senza conoscere il proprio albero genealogico, senza sapere da dove viene il proprio colore di occhi, la propria voce, le proprie paure, è qualcosa che ha il sapore dell’approdo, dell’identità finalmente incarnata.

Quel figlio rappresenta molto di più: è carne che conferma l’esistenza, radice che fa sentire di avere un posto nel mondo. È affinità, e dall’affinità deriva la sicurezza. È primordiale.

Quando un tribunale decide di sottrarre quel figlio, lo fa di solito sulla base di relazioni tecniche e valutazioni psicologiche che forse non tengono conto della storia adottiva del genitore.
Il sospetto che lo faccia come se essere stati adottati fosse un dettaglio irrilevante, è forte e lecito, considerato quanto poco ancora si sa dell’adottato e del suo vissuto.

Ma avere una storia adottiva non può essere una nota a margine. È una condizione esistenziale che tocca profondamente la capacità di legarsi, il modo di affrontare i conflitti, la paura dell’abbandono.
Chi ha subito una rottura originaria fatica spesso a sentirsi degno di amore e stabilità. Ma proprio per questo, nel legame con un figlio, cerca spesso di custodire con tutto sé stesso ciò che non ha avuto.

Togliere un figlio a una madre adottata, in assenza di motivi gravi e reali, come trascuratezza o violenza, è infliggerle un trauma che ricalca fedelmente quello originario: un altro abbandono, un altro strappo.
Una ferita che conferma, ancora una volta, la convinzione profonda e silenziosa di non essere degni, di non meritare l’amore, di non poter mantenere un legame nemmeno quando è finalmente “di sangue”.

In tutto questo, assistiamo ancora all’applicazione di concetti che dovrebbero essere fuori dalle aule dei tribunali. Uno su tutti: la PAS, la cosiddetta “sindrome di alienazione parentale”, un costrutto senza basi scientifiche, che oggi la Cassazione ha definitivamente dichiarato non utilizzabile. Eppure, continua ad avere cittadinanza nei tribunali, soprattutto quando serve a colpire la madre, a screditare la sua voce, a mettere in dubbio le sue intenzioni. È un’arma spuntata che però fa ancora male. E che non guarda in faccia nessuno: né alle madri, né tantomeno alle storie più delicate come le storie adottive.

Mi chiedo con che coscienza agiscano certe CTU, certi servizi, certi tribunali. Con quale preparazione? Con quale ascolto reale? Quanto pesa il pregiudizio, nemmeno tanto nascosto, secondo cui chi è stato adottato è “fragile” o “instabile”. Spesso è proprio l’esperienza della genitorialità che crea riferimenti validi e dà un senso e stabilità alla vita di un adottato.

Non dico che l’essere stati adottati renda automaticamente bravi genitori. Ma dovrebbe almeno spingere chi valuta a guardare più a fondo. A chiedersi cosa significa, davvero, per un adottato, essere madre o padre. Perché un figlio, per una persona adottata, non è solo un figlio: è la prova vivente che si è capaci di amare, che si può appartenere e creare appartenenza.

Serve la presenza, nei tribunali, di chi abbia una reale conoscenza dell’esperienza adottiva, nei suoi risvolti emotivi, identitari e relazionali.
Togliere un figlio a una madre adottata, senza questo sguardo, significa recidere con leggerezza un legame che per lei è radice, riparazione, senso.
E ancora, quando si toglie un figlio a una madre adottata, non si spezza solo un legame: si rischia di trasmettere al figlio lo stesso senso di abbandono già vissuto dalla madre.

Non so quante altre storie come queste esistano. Già tre sono troppe. Se accade anche solo in pochi casi, vuol dire che qualcosa non funziona. E non può lasciarci indifferenti.



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