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Mindhunter – sottotrama adozione

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Mindhunter è una delle poche serie che mette in scena la complessità dell’essere genitore adottivo, soprattutto quando il bambino ha subito traumi precoci o porta con sé un bagaglio invisibile.

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La rappresentazione del figlio adottivo come “bambino disturbato” è in genere pericolosa, perché rischia di alimentare lo stereotipo dell’adottato problematico, muto, imperscrutabile, ma in Mindhunter risulta dolorosamente realistica.

Ho visto le due stagioni tre volte, in linea con il mio interesse per la psicologia criminale e per il lavoro pionieristico di John E. Douglas. La serie è ben fatta e i personaggi sono affascinanti, tutti: sia il team del reparto scienze comportamentali, sia i serial killer scelti.

Prodotta da David Fincher e Charlize Theron, è andata in onda su Netflix per due stagioni (2017 e 2019) e si basa sul libro “Mindhunter: Inside the FBI’s Elite Serial Crime Unit” di John E. Douglas e Mark Olshaker. Racconta la nascita della criminologia moderna e del profiling criminale, seguendo l’agente dell’FBI Holden Ford, il collega Bill Tench e la psicologa Wendy Carr, mentre intervistano serial killer noti per capire la loro psiche.

Una delle trame secondarie, quella più umana e meno investigativa, riguarda da vicino l’adozione o, meglio, l’esperienza genitoriale adottiva.

Non potendo avere figli, Bill e Nancy Tench hanno adottato un bambino, Brian. Lo scopriamo a stagione inoltrata, senza flashback romantici o sentimentalismi.

Brian è un bambino silenzioso, impenetrabile. Più che una presenza, è un enigma. Non ha strumenti per elaborare e comunicare il trauma e porta con sé una storia pregressa che non viene raccontata, ma che influisce sul suo comportamento.

Il silenzio di Brian è emblematico: non solo non parla dell’evento traumatico, ma non parla affatto. È un bambino che non ha parole per sé, per il mondo, per ciò che ha vissuto. Questo ricorda la condizione di alcuni figli adottivi che, almeno per un tempo, restano imprigionati nel silenzio e nel non detto.

Nancy sembra molto più attenta alle difficoltà del figlio: cerca aiuto, parla con psicologi, vuole provare la musicoterapia, si interroga. Bill, invece, è spesso assente, preso dal lavoro, e più lento – o forse solo restio prorprio per ciò che vede nel suo lavoro – nel riconoscere la profondità del disagio del figlio.

La difficoltà di creare un legame affettivo solido è evidente: Brian non sembra riconoscere Bill come figura paterna, e questo crea tensioni anche nella coppia genitoriale.

Molto interessante è la conversazione tra Nancy Tench e Debbie, fidanzata di Holden, subito dopo una cena, mentre lavano i piatti al termine dell’episodio 6 della prima stagione.

Nancy si sfoga con tristezza:

«Pensavo che l’adozione fosse un modo meraviglioso per aiutare un bambino. Ma la verità è che l’ho fatto per me stessa.»

Una frase che pesa come una confessione. Un’ammissione che nella realtà raramente si ha il coraggio di fare. Quante adozioni nascono da un vuoto da riempire, da un bisogno profondo e personale? Quanti genitori lo ammetterebbero a se stessi?

Nancy non idealizza suo figlio. Non lo descrive come “una benedizione” o “un miracolo”. Dice: «Non sappiamo dove fosse prima dell’orfanotrofio. Non sappiamo cosa ha visto o sentito. Mi chiedo se sarebbe stato meglio per lui stare con un’altra famiglia.»

Nancy, madre adottiva, invece di raccontare quanto è cambiata in meglio la sua vita, si chiede se ha davvero fatto il bene di suo figlio. Dubita, si interroga, si toglie dal centro.

Per me è stata una delle rappresentazioni più realistiche dell’adozione viste sullo schermo. Niente fiocchi azzurri, niente amore a prima vista. Solo la fatica di costruire un legame con chi arriva con la propria storia cucita addosso.

Nel corso della seconda stagione, emerge una sottotrama significativa che segna un punto di rottura nella famiglia Tench: i genitori scoprono che Brian è stato coinvolto nella morte di un bambino più piccolo. Non ha partecipato attivamente all’uccisione, ma ha assistito senza intervenire mentre due bambini più grandi causavano la morte del piccolo.

Brian aveva suggerito di mettere il corpo su una croce, gesto che si presta a più interpretazioni: per la gente è una sorta di macabro rito, per Nancy un tentativo di far risorgere il bambino, per Bill, che ogni giorno ha a che fare con menti efferate, il segno di qualcosa che non va in Brian.

La scena, di cui non si vedono immagini esplicite ma si intuisce tutto dal comportamento dei personaggi e dai racconti, è disturbante proprio per il silenzio e l’inquietudine che suscita: Brian non parla, non spiega, non reagisce.

Nell’episodio 7, Bill si confida con la dottoressa Carr: «Sono sempre distratto, non riesco a finire nemmeno una dannata cosa, è che mi sembra che lui faccia dei passi indietro. Ha smesso di parlare, non gioca quasi più, Brian dovrebbe raccontarmi delle sue sciocche giornate. Non ho idea di che cosa gli passi per la testa, l’abbiamo preso che aveva tre anni, i medici ci dissero che stava bene, ma prima chissà com’era la sua vita, come veniva trattato, a cosa è stato esposto? Come si può a sette anni fare quello che ha fatto lui? Ha guardato morire un bambino, il corpo crocifisso, e non l’ha detto a nessuno. Era già dentro di lui quando l’abbiamo preso o abbiamo fatto noi qualcosa?»

«Bill io ti conosco, non è colpa tua.»

«Quindi lui è questo.»

Non c’è redenzione, non c’è finale catartico, ma solo la fatica della convivenza con una storia difficile da decifrare. In questo senso la serie fa qualcosa di importante nella sottotrama dedicata all’adozione: non edulcora, non salva a ogni costo.

Mostra che la genitorialità adottiva può essere faticosa, disorientante, anche fallibile, e che i figli adottivi non sempre rispondono all’amore con gratitudine o con legami immediati.

Una rappresentazione che, pur nei limiti narrativi di una serie crime, apre uno spiraglio verso una narrazione più complessa e onesta dell’adozione.

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