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Tra le ragioni del calo delle domande di adozione, ce n’è una di cui si parla poco: la quantità di crisi adottive esplose negli ultimi vent’anni.
Leggi tutto: Crisi adottiva: quando l’amore non bastaIl sistema ha mandato allo sbaraglio famiglie capaci e disponibili, mentendo su chi erano davvero i bambini che stava abbinando. Ha affidato minori con storie complesse a genitori ignari, approfittando del desiderio delle coppie di formare una famiglia. Del fatto che avrebbero accettato tutto pur di costruirla, senza fare troppe domande. Senza risultare “esigenti.”
Schede inesistenti, carenti, imprecise.
Informazioni omesse, minimizzate, distorte.
Eppure, quelle informazioni avrebbero potuto preparare meglio i genitori, aiutarli a capire, a reggere, a costruire un’accoglienza più solida e più protettiva.
Invece si è preferito ingannare, pur di “far andare in porto l’adozione”.
Il risultato?
Una catena di sensi di colpa, inadeguatezza, fallimento. Nei genitori, nei figli, nelle relazioni.
Un comportamento che non è perdonabile al sistema.
Di recente una mamma adottiva mi ha chiesto un confronto.
Ci siamo ritrovate a spuntare insieme la lista delle possibilità per chiedere aiuti esterni, e lei le ha tentate tutte: psicologi, psichiatri, educatori, associazioni, avvocati, suore, preti, carabinieri, ed è riuscita a conservare un po’ di senso dello humor quando mi ha detto: “perfino un esorcista.”
Ha attivato tutti gli aiuti possibili. Non è stata lenta, né impreparata.
È stata lasciata sola.
Ha dato il suo consenso per lasciarmi raccontare la vicenda, perché la sua voce, oggi, possa essere anche la voce di altri.
“Ogni giorno ci sono ‘novità’. Ma non sono quasi mai buone.
Da oltre vent’anni viviamo nel caos emotivo e pratico generato da nostro figlio M., adottato dal Sudamerica insieme al fratello P.
Un’adozione che ci era sembrata naturale dopo la morte tragica di un figlio naturale.
Un modo per riaprire la porta della vita.
Erano già grandicelli, e provenivano da una lunga serie di affidi terminata con l’accoglimento in un istituto.
I primi mesi dopo il loro arrivo in Italia sembrava andare tutto bene. Fin troppo bene.
Educati, gentili. Ci dicevano che era normale. Che era la famosa “luna di miele”.
Loro volevano essere accettati.
Ma poi è arrivata la discesa, la fatica di adattarsi. E da lì non siamo più riusciti a risalire.
Tanti e diversi i pronunciamenti:
M. avrebbe un disturbo dell’umore, un disturbo antisociale di personalità, un disturbo misto…
P. avrebbe un disturbo narcisistico e via così…
Diagnosi dubbie, arrivate troppo tardi. Effettuate in tempi biblici. Esperti sia privati che del servizio pubblico che si contraddicono.
Richieste di attivare curatori che si muovono con calma flemmatica.
Assistenti sociali che non si fanno mai sentire.
Operatori che non fanno rete e lasciano l’onere a noi genitori, che già dobbiamo sostenere una quotidianità impossibile.
L’ente adottivo non ci ha detto la verità.
L’orfanotrofio ha solo minimizzato.
E le famiglie affidatarie precedenti avevano già fatto i loro danni.
C’erano già furti di denaro, sottrazione di oggetti in casa, bugie a raffica, vizi costosi e perfino piccoli reati.
Ma ci dicevano: “Sono adolescenti difficili, passerà.”
Non è passato niente. È solo peggiorato.
Oggi sono entrambi adulti e vivono ancora con noi.
P. è più tranquillo, ma con M. sono discussioni infinite: ha sempre ragione lui.
Abbiamo provato più volte a renderlo autonomo, a farlo uscire di casa, ma ogni volta torna.
Perché fuori si perde. Beve, fuma, spende tutto, si riempie di debiti.
Ha messo al mondo tre figli con una ragazza della sua stessa origine.
E indovinate chi si occupa di loro? Noi. I nonni.
Che ormai andiamo verso l’ultima parte della vita.
Stanchi. Svuotati. Con il desiderio di un po’ di pace e riposo.
M. è in cura con un farmaco, ma ogni sera devo ricordargli di prenderlo.
Se mi allontano, anche solo per respirare un paio di giorni, so già che non prende le pastiglie.
E io intervengo.
Perché mi sembra un’omissione di soccorso e mi sentirei in colpa se non lo aiutassi.
Ma quanto si può reggere così, a gestire e controllare un adulto?
Noi siamo entrati in una storia troppo grande. E nessuno ce l’ha detto.
Ci chiedono: “Ma a quell’età ancora vive con voi?”
E dove dovrebbe stare?
Quando gli abbiamo lasciato autonomia, ha distrutto tutto: quadri, mobili, elettrodomestici.
Non pagava nemmeno le bollette.
Lavori sempre precari, cambiava impieghi di continuo. Buste paga sperperate in poco tempo.
E poi arriva sempre il giorno in cui torna.
Con i bambini. Con il suo dolore. Con le sue bugie.
Io non so più dove finisce la misericordia e dove comincia l’autodistruzione di tutta la famiglia.
È malato? O ci fa?
La psicologa che lo segue mi ha detto una frase probabilmente vera, ma che mi vincola:
“Ci fa perché ci è.”
Abbiamo speso tanta energia, tempo, salute e denaro per toglierlo dai guai.
Dopo un tentativo di aiutarlo, anche amici e parenti si sono stancati di essere presi in giro da lui.
Il fratello lo giustifica e rimprovera noi, perché M. ha avuto più attenzione.
Eppure non abbiamo mai abbandonato nemmeno lui.
Ci siamo sopravvalutati, sì. E adesso siamo esausti.
Non lo dico con rabbia.
Lo dico con rispetto per tutti quei genitori che stanno vivendo adozioni complesse, tragitti impossibili:
non adottate se pensate che basti l’amore. Non basta.
Serve anche che la comunità attorno aiuti e sappia aiutare.
Serve preparazione, serve supporto tempestivo e continuativo.
E soprattutto serve un sistema che non inganni, che dica la verità su quello che questi bambini, questi ragazzi hanno vissuto prima di arrivare da noi.
Altrimenti si rischia di accogliere chi è già stato danneggiato, e – senza volerlo – danneggiarlo ancora di più.
Se potessi tornare indietro, forse non adotterei.
Non perché non sono capace di amare, accudire, restare.
Ma perché mi avevano fatto credere che l’amore avrebbe aggiustato tutto.
Affidare una storia tanto complessa a due genitori con strumenti umani — non clinici, non specialistici — è stato un errore del sistema. Nessuno, per quanto amorevole e presente, può farsi carico da solo di ferite così profonde. L’amore, da solo, non basta.”