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Adozione e cronaca: come i media raccontano le famiglie adottive

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La stampa ha il compito – e il potere – di raccontare il mondo. Lo fa ogni giorno, scegliendo parole, accostando aggettivi, mettendo in rilievo certi dettagli e lasciandone nell’ombra altri.

Quando leggo una notizia tragica, come quella del figlio che ha ucciso il padre, e trovo scritto “figlio adottivo”, non mi scandalizzo per la parola.

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La relazione era quella, è un dato di fatto.

Mi domando però: perché proprio quel dettaglio viene scelto e sottolineato?

Che suggestione vuole creare?

Quale paura risveglia?

Sì, certo, per rispetto della riservatezza, si potrebbe evitare di precisare.

Ma quando lo si riporta, cosa si sta davvero dicendo?

Che paure accende?

Che visione dell’adozione rimane sullo sfondo?

Che cosa pensano i lettori non adottivi leggendo quella parola?

E cosa provano gli adottati, leggendo di nuovo un episodio in cui “adottivo” sembra diventare un’etichetta pericolosa?

Spesso i primi a indignarsi sono proprio i genitori adottivi, perché leggono quella parola – “adottivo” – come una minaccia alla loro identità.

Perché non scrivere semplicemente “figlio”?

Questa è la reazione.

Ma è una reazione che nasce, ancora una volta, da un bisogno di autotutela dell’adulto.

Un bisogno comprensibile, ma che sposta lo sguardo:

non più sul figlio, sulla relazione, sulla tragedia, ma sul dolore del genitore adottivo che teme di non essere considerato “genitore e basta”.

Io, invece, credo che dovremmo avere il coraggio di andare a fondo. Di chiederci perché fa così paura leggere quella parola.

Di interrogarci su che cosa la stampa smuove, quando scrive “figlio adottivo”.

La verità è che ci sono storie faticose, complesse, anche tragiche. Alcune riguardano famiglie adottive.

Non è l’adozione in sé il problema, ma l’assenza di ascolto, comprensione, sostegno – soprattutto dopo l’adozione.

Io non credo che sia solo una svista o una mancanza di sensibilità.

Credo che il giornalista – specie quello di cronaca – semplicemente attinga a ciò che agita, scuote, vende.

E allora si aggrappa a ogni etichetta che possa creare eco emotiva, che faccia notizia.

Perché la parola “adottivo”, in questi contesti, non è neutra.

Sotto la superficie linguistica c’è molto di più.

C’è un’idea che ancora aleggia:

che l’adozione sia una relazione “diversa”,

che il legame non sia così saldo,

che un figlio adottivo sia “altro”, potenzialmente imprevedibile,

che “non è sangue tuo” significhi “potrebbe succedere di tutto”.

Ecco, è questo che mi interroga.

Il giornalismo – specchio del popolo e del Paese in cui nasce – non crea le paure, ma spesso le porta a galla.

Le amplifica.

E in casi come questo, non fa che alimentare uno stigma già esistente: lo stigma sull’adozione, sul figlio adottivo, sulla famiglia non biologica.

Io, personalmente, non ho paura della parola “adottivo”.

Ma osservo con attenzione quando viene usata, come viene usata…

e perché in certi contesti si spinge per evitarla.

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