Nel mondo dell’adozione, amare davvero significa saper restare. Anche quando fa male. Anche quando gli altri non capiscono.
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Ci sono persone che non sanno stare nella complessità.
Eppure sembrano lucide, intelligenti, culturalmente attrezzate. Hanno costruito carriere, viaggiato, letto, vissuto. Parlano di accoglienza, di empatia, di relazioni.
Ma quando la vita si presenta sotto forma di paradosso – come spesso accade nell’adozione – si irrigidiscono, si sottraggono, vanno in cortocircuito.
Perché la complessità non si risolve: si attraversa.
E non tutti sanno attraversarla.
Spesso scambiano l’incomprensibile per qualcosa di sbagliato. E allora rispondono come possono: con distacco, con soluzioni nette, con consigli di antica pedagogia, con una paura travestita da fermezza. O, peggio, con l’accusa.
Un figlio adottivo, una figlia adottiva che fa fatica, e ha portato la sua fatica anche nell’adultità.
Una madre, un padre che non si arrendono, anche se l’età consentirebbe di lasciar volare, di riposarsi.
Un legame che continua anche quando vacilla più volte.
E attorno, chi guarda da fuori e dice:
“Lui si sta approfittando di te.”
“Se non la lasci andare, non imparerà mai.”
“Lo fa perché tanto sa che lo aiuti.”
“Lasciala al suo destino, è fatta così, non cambierà.”
Lo dicono per proteggerti, forse.
Ma in realtà stanno proteggendo sé stessi: dal disagio, dall’impotenza, da una verità scomoda che non sanno nominare.
Che dileguarsi quando c’è da prendersi cura, da rispondere, da esserci accanto a un figlio fragile non è umano.
Che non ne sanno nulla, e che non interessa loro approfondire.
Meglio restare in superficie, così non sono tenuti ad aiutare.
Eh sì, sono persone impreparate.
E spesso si aggrappano a un modello di riuscita e di razionalità che non ammette variabili fuori schema.
E scelgono il disimpegno emotivo.
Sono gli stessi che a volte non si accorgono di essersi fatti usare per anni dai loro figli biologici adulti, “sani”, presenti solo quando conviene.
E ancora: anche chi ha vissuto un’adozione “riuscita” secondo i parametri classici – figli adattabili, contesto favorevole, silenzi ben tenuti – spesso non regge l’imprevisto.
O critica le famiglie a cui capita.
È una forma di solitudine profonda, quella che conoscono tanti figli adottivi adulti: quando scoprono che l’amore che hanno ricevuto era condizionato alla loro “bravura”, alla loro adattabilità, alla loro capacità di non disturbare troppo.
Ma l’adozione è piena di imprevisti.
L’adozione è complessità per eccellenza.
È fatta di parti che non tornano.
Di dolore che dura per anni, o che affiora dopo anni.
Di figli che spingono via chi amano, e di genitori ai quali tocca imparare che il cammino è lungo, e forse non prevede una fine.
Io lo so, perché oggi sono madre adottiva di una figlia che attraversa un momento complesso.
E figlia adottiva di genitori che, pur volendomi bene, avrebbero forse fatto fatica a reggere se fossi stata più simile a mia figlia.
È una riflessione scomoda, la mia.
Ma non per questo meno vera.
E vorrei dirlo a chi si sente giudicato, lasciato solo, frainteso da parenti, amici, conoscenti e insegnanti: potreste pensare che abbiano ragione, solo per la tentazione umana di togliervi quel fardello.
Ma restare accanto a un figlio nella complessità non è debolezza o stupidità.
Non è masochismo, perché “a te in fondo piace immolarti”.
È coraggio.
E se non ti capiscono, non significa che hai torto.
Significa che la tua scelta va oltre ciò che gli altri sanno concepire.
È una scelta di valore, che si fa ogni giorno.
In silenzio. Con amore. Usando le energie di riserva.
È questo, alla lunga, che può fare la differenza per un figlio che ha conosciuto l’instabilità: sapere che, almeno una volta nella vita, qualcuno è rimasto.
E se ti senti solo, frainteso, criticato…
non è perché sbagli.
È perché stai facendo qualcosa che pochi riescono a fare: restare, anche quando è difficile, anche quando fa male.
E a voi, è capitato di dover interagire con chi riesce a stare solo accanto alla parte funzionante degli altri?
Quella parte che ce la fa, che è “risorsa” utile, che ha saputo “venire su bene”, come spesso si dice con superficialità nel mondo adottivo.
Ma cosa succede quando chi ce l’ha sempre fatta smette di funzionare?
Quando il dolore viene allo scoperto e chiede ascolto invece che giudizio?