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L’adozione e il mito della caverna di Platone

Dal buio dell’adottismo alla libertà della consapevolezza.

Tempo di lettura: 4 minuti

Parlando di ADOTTISMO, mi viene in mente il mito della caverna, narrato da Platone ne La Repubblica: una metafora sorprendentemente adatta a raccontare le narrazioni che avvolgono l’adozione.

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Nel mito, degli uomini sono incatenati fin dalla nascita in una caverna. Guardano solo una parete, su cui si riflettono ombre proiettate da oggetti illuminati da un fuoco.
Quelle ombre, per loro, sono la realtà.

Solo quando uno si libera, esce dalla caverna e vede la luce del sole, capisce quanto fosse illusoria la sua visione.
Ma quando torna nella caverna per raccontare la verità… viene deriso, rifiutato, considerato folle.

Nell’adozione, le ombre sulla parete sono le narrazioni dominanti:
“L’amore salva”
“La famiglia del cuore guarisce tutte le ferite”
“Conta solo chi ti cresce”

Queste storie, per quanto rassicuranti, sono solo ombre.
Spesso servono agli adulti – genitori, istituzioni, società – per sentirsi buoni, giusti, a posto.

Per i figli, la caverna è il linguaggio che li circonda:
parole che non lasciano spazio al dolore, alla rabbia, alla perdita.
Parole che li costringono a sentirsi grati, felici, miracolati.

Ma a un certo punto – spesso nell’adolescenza o nell’età adulta – qualcosa non torna. Le ombre cominciano a vacillare. E nascono domande:
Chi sono? Da dove vengo?
Perché sono stato lasciato?
Perché non posso sapere nulla dei miei genitori di nascita?

È l’inizio della liberazione.

Uscire dalla caverna è faticoso. Ma significa finalmente vedere.
Incontrare altri adottati.
Leggere testimonianze vere.
Sentire parole nuove, sincere.
Comprendere che l’adozione è anche trauma, sradicamento, ricostruzione identitaria.

Non per negare il bene ricevuto. Ma per abbracciare la verità intera. E riconoscere che quel bene è stato anche dato.
Perché se l’adozione ha funzionato, è stato anche merito dell’adottato. Di chi ha reso possibile una genitorialità che forse non sarebbe mai esistita.

Anche per molti genitori adottivi c’è una caverna.
Fatta di illusioni: che basti l’amore, che quel brutto passato svanisca per vivere felici e contenti, che accogliere significhi guarire.
Ma quando il figlio manifesta disagio, rabbia, opposizione… qualcosa cambia.
Anche per loro può iniziare il percorso di uscita.
Ascoltare, mettersi in discussione, accettare che invece l’amore non basta.

E poi c’è la società. Profondamente incatenata.
Convinta che l’adozione sia una seconda rinascita, un lieto fine.
Che basti raccontare storie commoventi e usare slogan rassicuranti per parlare di adozione.

Ma ogni volta che un adottato o un genitore torna dalla luce e racconta ciò che ha visto, un piccolo spiraglio si apre. E forse, un giorno, anche la parete della caverna si sgretolerà.

Il cammino verso la consapevolezza è individuale.
Ma può diventare collettivo, se chi ha visto la luce decide di condividerlo.
Anche a costo di essere frainteso.
Anche a costo di essere respinto.

Perché solo la verità, anche se scomoda, restituisce autenticità all’esperienza adottiva.
E apre uno spazio di libertà dall’adottismo dilagante:
libertà per l’adozione, di essere raccontata senza filtri;
libertà per gli adottati, di esprimere ciò che provano;
libertà per chi sente e pensa in modo diverso, di uscire dall’ombra.

Perché nella libertà, finalmente, si respira.

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