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L’amore per l’adottato

Tempo di lettura: 3 minuti

Il giorno in cui mia figlia mi ha detto:
“Non so cosa vuol dire voler bene”,
ho capito il suo dramma.

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Ci sono figli adottivi che crescono senza sapere che esiste l’amore.
Perché l’amore, nei primissimi anni, non gli è stato mostrato.
Non gli è stato detto. Non gli è stato insegnato.
Non ne hanno avuto un’esperienza viva e tangibile.

E allora accade che, anche una volta adottati,
non sappiano riconoscerlo.
Perché, se non impari una lingua, non sai capirla.
E se nessuno te l’ha mai parlata…
non sai nemmeno che esiste.

E quando la senti per la prima volta,
ti appare troppo grande, inverosimile, immeritabile.
Poi, crescendo, cominci a sentirne parlare ovunque:
nei film, nelle canzoni, nei racconti degli altri.

L’amore diventa un ideale. Un sogno. Un diritto.
Qualcosa da conquistare perché è bello,
perché fa felici, perché gli altri ce l’hanno,
perché sembra l’unica cosa che valga davvero.

Ma può restare astratto. Confuso.
Scollegato dalla realtà.
L’amore è uguale a urgenza.
È chi ti fa sentire speciale ora.
È chi non mette limiti, non chiede crescita, non pone confini.
È ciò che ti dà finalmente un’illusione di libertà.

E così, alcuni adottati ne hanno fame.
Ma non ne distinguono il sapore.
Lo desiderano, ma non vedono che ce l’hanno davanti, tra le pareti di casa.
O non sanno che farsene.
Lo testano, lo rifiutano, lo distruggono.
Perché non somiglia affatto a ciò che immaginavano.

Tutto ciò che è amore silenzioso – chi si prende cura, chi resta, chi regge – non viene visto. Viene dato per scontato.
E i genitori, sfiancati dall’accontentarsi di un amore pratico,
si sentono dire:
“Non mi volete bene. Non mi capite.”
Quando invece hanno fatto di tutto. Anche troppo.

Ma questa non è anaffettività.
È non averne esperienza.
Non è ingratitudine.
È disorientamento.
È la conseguenza di non avere imparato quella lingua nei primi giorni della vita.

Però l’amore si può apprendere.
Anche se all’inizio fa paura.
Anche se ti hanno insegnato a vivere senza.
Ma bisogna volerlo ascoltare.
Riconoscerlo. Accoglierlo.

E forse serve qualcuno che, pazientemente,
continui a parlare quella lingua anche se non viene capita.
Che te la spieghi con calma.
Che resti fedele al proprio amore,
anche se viene respinto,
anche se sembra invisibile,
anche se fa male.

Fino a quando qualcosa dentro comincia a tradurre quella lingua.
Secondo te, chi chiama il tuo nome, ti cerca, ti parla…
lo fa per obbligo o per amore?
Chi si prende cura di te…
ti vuole bene o ti odia?
Chi ti dice “no” ma continua a esserci…
ti sta controllando o ti sta proteggendo?
E se tu facessi per un altro tutto quello che stai ricevendo…
non lo chiameresti amore?

Forse è qui che ci si ferma.
E si comincia a vedere davvero l’amore che c’è.
Anche se è fatto di piccole cose.
Anche se non è perfetto come immaginavi.

Si comincia a mettere in dubbio la propria idea d’amore.
E, a un certo punto, ci si può fare una domanda nuova:
“Quello che penso sia amore… lo è davvero?”
È da lì che può iniziare un’altra strada.

L’amore non è sempre spontaneo.
Ma si può imparare.
Se si sceglie la fatica di volerlo imparare.

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