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L’autosabotaggio silenzioso dell’adottato

L’autosabotaggio nei figli adottivi è spesso silenzioso. Si chiama stanchezza, scuse, rinuncia. Ma sotto ci sono una fragile autostima e un bisogno disperato di amore.

Tempo di lettura: 3 minuti

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Ci sono adottati che non urlano, non scappano, non provocano.
A volte non servono gesti eclatanti.
Basta non presentarsi. Saltare la lezione.
Fingersi malati per non andare al lavoro.
Lasciare il fidanzato, mollare un’amica.
Non rispondere ai messaggi.

È così che alcuni adottati imparano a buttarsi giù da soli.
Prima che lo faccia il mondo.
Prima che lo faccia chi dice di amarli.

Si limitano a lasciarsi andare.
Si chiudono in casa, dicono che sono stanchi. Che non è il momento giusto.
Che si sentono male, anche se hanno solo un po’ di raffreddore.
Che “guarda che poi esplodo se insisti”, minacce velate, come se fossi tu a provocarli.

Quando li ascolti, dicono:
“Non ce la faccio.”
“Mi sento stanco.”
“Ho bisogno di tempo.”
“Ho il cervello fuso.”
“Voglio solo starmene in pace.”

Ma poi… li vedi uscire fino a tardi.
Magari con compagnie ambigue.
Al cellulare per ore.
In viaggio nel weekend.
Rientrano quando gli pare, mentre ti dicono che “sono esausti”.

E allora capisci:
non è depressione. È autodifesa.
È l’arte di rovinarsi da soli, prima che lo facciano gli altri.
È sabotare un progetto per non affrontare il rischio di deludere.
È cercare nel fallimento una zona di conforto, perché il successo fa più paura dell’insuccesso.

Per chi ha conosciuto l’abbandono, fallire è familiare.
Riuscire, invece, è pericoloso: perché se riesco e poi perdo tutto?
Meglio mollare prima, che essere mollati di nuovo.
Meglio sabotarsi, che affrontare la paura di non essere all’altezza.

Eppure, ogni volta che un adottato si fa del male, c’è una parte che spera ancora:
“Vedrai quanto sto male. Forse così mi amerai davvero.”

E allora no, non è disimpegno.
Non è incostanza. Non è immaturità.
È dolore travestito da difesa.
È paura di fidarsi per davvero.
È un tentativo maldestro di dire:
“Se mi ami, resta. Anche adesso. Anche se ti porto al limite più inaccettabile.”

Intanto, però, le occasioni passano.
E chi li ama è lì, che prova a svegliarli, a spronarli, a farli uscire.
E viene accusato di essere invadente, giudicante, “pesante”.

La verità è che chi si butta giù da solo ha spesso un passato pieno di rotture.
E si convince che se sta male per conto suo, almeno quel dolore lo controlla.
Ma non solo: quel dolore controlla anche gli altri.

È più comodo che sia l’altro a reagire, a esplodere, a cedere…
così non è l’adottato a perdere il controllo, ma chi gli sta intorno.
Perché l’adottato, nella sua vita, ha controllato ben poco.
E ora, per non sentirsi più impotente, preferisce agire sulle reazioni degli altri piuttosto che affrontare le proprie emozioni.

Ma la vera forza è stare dentro le cose, anche quando fanno paura.
È mettersi in gioco. È provarci. Anche solo per sé stessi.
E ogni volta che un adottato trova il coraggio di restare, invece di buttarsi via, vince un pezzo della sua storia.

Chi accompagna un figlio adottivo in questo cammino lo sa:
non basta una volta sola.
Ci si prova, si cade, si riprova.
Ci si becca un’alzata d’occhi, un tono seccato, persino un vaffanculo.

E no, non sempre l’amore basta.
Ma la presenza, quella sì.
Nel tempo, spesso vince.
Non importa quanto ci vorrà.

Questo post è per chi fa rumore senza parlare.
E per chi, nel mezzo di quel silenzio assordante, non smette di restare.

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