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Quando l’ha fatto anche mia figlia, ne sono rimasta spiazzata.
Le avevo insegnato il rispetto per gli altri e per le cose.
Non era una bravata tra amichette.
Era una ragazzina e per qualche tempo è stato qualcosa di sistematico, individuale, silenzioso.
Più insistevo per farmi restituire il maltolto, più lei alzava il muro.
Negava con convinzione: “Non sono stata io.”
Poi, una settimana dopo, capitolava.
Restituiva tutto di sua volontà, magari aggiungendo una confessione:
“Ho preso anche questo o quello.”
E di quel “questo o quello” spesso non sapeva neppure che farsene.
Sapeva che era sbagliato, ma non sapeva spiegarsi il perché.
Succede più spesso di quanto si pensi.
Un figlio adottato può rubare. In casa. A scuola. Ai parenti. Al supermercato.
A seconda dell’età, prende soldi, cibo, piccoli oggetti, trucchi, penne, vestiti.
Se lo si scopre, si arrabbia scandalizzato, nega e si chiude.
I genitori si sentono traditi, spiazzati, delusi.
“Con tutto quello che abbiamo fatto per lui!”
“Ma non gli manca nulla!”
“Dove abbiamo sbagliato?”
Si sentono colpevoli, inadeguati.
Ma non c’è niente di cui vergognarsi.
C’è solo da restare, ascoltare, e dare un altro nome a quel dolore che bussa travestito da furto.
Perché no, non è una questione di bisogno materiale.
È un grido silenzioso. Un gesto disperato. Un sintomo.
Rubare, per un adottato, può voler dire tante cose:
- Abitudine: in istituto ha imparato che le cose si prendono, perché nessuno gliele dava. Ha visto altri farlo, o l’ha fatto per sopravvivere. Il furto è diventato la lingua che ha parlato per anni. E ora, anche se non serve più, è difficile smettere.
- Controllare qualcosa: “Se prendo, almeno una cosa è mia. Almeno questa la decido io.” È un modo per costruirsi un’autostima, un’assertività.
- Sentirsi vivi: “Quando rubo, esisto. Qualcuno mi guarda, anche solo per fermarmi.” È galvanizzante.
- Cercare appartenenza tra i pari: “Se porto o regalo qualcosa, mi vogliono. Se non ho niente, sono nessuno.” È desiderio di essere accettato.
- Trattenere l’amore: “Se non posso averti tutto, almeno ho un tuo pezzo con me.” È una simbiosi che non ha potuto vivere con la mamma naturale.
- Sfidare il legame: “Resterai anche adesso? Anche se ti ferisco? Anche se ti deludo?” È mettere alla prova per paura che l’abbandono si ripeta.
Non è cleptomania.
È dolore che prende forma.
È un bisogno che non sa come nominarsi.
È fame d’amore, ma anche paura di riceverlo.
È identità che cerca conferme nel gesto estremo.
E no, non va subito “spedito dallo psicologo”.
“Serve uno psicologo. Va curato” è spesso un modo per delegare la fatica.
Ma il messaggio che rischia di arrivare è: “Non ti vogliamo capire. Non vai bene, vai aggiustato.”
E allora i furti continuano.
Lo psicologo può essere utile, certo.
Ma è nel rapporto quotidiano che il genitore ha il compito più delicato: comprendere, restare, non fuggire.
Come rispondere, allora?
È difficile. Perché in questi gesti ci sono impulsività, genio, scaltrezza, audacia.
Partiamo da noi.
Chiediamoci cosa c’è dietro.
Sostituiamo la vergogna con la possibilità di comprenderci.
Rimaniamo, anche se ferisce.
Perché rubare non è solo rubare.
È dire, nel modo più distorto e umano che esista:
“Ho bisogno di qualcosa. Anche se non so cosa.”
Nel caso di mia figlia, per lungo tempo è stato un enigma.
Lei non sapeva dirmelo, io non riuscivo a leggerlo.
Ho cominciato a capire quando finalmente ha trovato le parole e mi ha detto: “Io non ti ho mai avuta.”
Ho preferito non esporla con gesti educativi antichi, obbligandola a restituire in pubblico davanti al negoziante o ai clienti.
Tanto si trattava di piccoli oggetti.
Mi voleva, ma mi respingeva allo stesso tempo.
In realtà aveva un concetto distorto dell’amore: per lei, amare significava fondersi, appartenersi totalmente, annullarsi nell’altro.
Una simbiosi impossibile da realizzare, soprattutto se la prima infanzia — dove quella simbiosi si forma — è stata spezzata.
Cercava questa fusione in me, poi nelle amiche, poi nei fidanzati.
E ogni volta che l’altro non colmava il vuoto, arrivava la delusione, la rabbia, il rifiuto.
Ma solo quando siamo riuscite a dar voce a quel bisogno senza nome, qualcosa si è sciolto.
E anche il rubare ha smesso di essere necessario.
Perché finalmente lei aveva capito che c’era sempre stato un posto dove poteva essere.
Quando un figlio smette di rubare, non è perché è stato punito.
È perché ha capito che l’amore non gli verrà più tolto.
Che qualcosa – finalmente – è davvero suo.
Il legame, per esempio.
La tua presenza.
Il diritto di essere visto senza essere rifiutato o espulso.
E da lì, davvero, può cominciare la sua libertà.