Il corpo adottato tra memoria, esilio e ritorno a sé.
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Ciascuno di noi è proprietario di se stesso. Il corpo è il primo “oggetto” della nostra proprietà privata. Quando si parla di adozione, raramente si parla del corpo come proprietà.
Leggi tutto: A chi appartiene il mio corpo?Eppure, è proprio dal corpo che passa il primo esilio.
Il corpo spostato. Consegnato. Scelto.
Il corpo che non ha scelto niente.
Il corpo di un bambino che viene acquisito da un’altra famiglia.
Il mio corpo — come quello di ogni persona adottata — è stato oggetto di decisioni altrui.
È iniziato tutto lì, nel gesto di essere portati via.
Dal ventre che mi aveva generata. Dalle braccia che non mi hanno più tenuto, o forse non l’hanno fatto mai.
E senza chiedere niente, quel corpo — il mio — è stato trasportato in un’altra storia.
Nuova, sì. Ma davvero mia?
Quando si dice:
“Sei come se fossi nato da noi”,
“Ora sei nostro figlio”,
“Non c’è differenza”,
si dimentica che il corpo dell’adottato racconta tutta la differenza del mondo.
A volte la racconta nei lineamenti. Nel colore della pelle. Negli occhi che non somigliano a nessuno.
Altre volte nella pelle che ribolle. Nel sonno difficile. Nel bisogno di proteggersi.
Nel rifiuto del contatto. Nei sensi che ricordano ciò che la mente ha dimenticato.
Sempre la racconta nei documenti inesistenti o lacunosi. Nelle informazioni che mancano.
Il corpo non è un contenitore neutro.
È archivio di memorie. Anche quelle che non si sanno dire. Quelle percettive. Quelle profonde.
E il diritto a possedere il proprio corpo — a sentirlo proprio, a dargli voce, a decidere chi può avvicinarsi e chi no — è un diritto fondamentale.
Anche nell’adozione. Soprattutto nell’adozione.
Troppo spesso, chi adotta si concentra sul legame, sull’amore da costruire, sull’incontro.
Ma dimentica che, prima ancora di essere amato, un figlio adottivo ha bisogno di riabitare il suo corpo.
Di adattarlo a un nuovo contesto. Di sentirsi al sicuro.
Di sapere che nessuno lo sposterà altrove. Che non lo priverà più di nulla.
E poi c’è il corpo simbolico.
Il diritto a conoscere la propria origine.
Il diritto a sapere da chi si viene, cosa si è ereditato, cosa si porta scritto addosso.
Per molti adottati, conoscere l’origine non è una curiosità. È un richiamo somatico.
Un bisogno che passa per il corpo e che termina in un altro corpo: un volto da riconoscere, un odore familiare, un timbro di voce che risuona dentro.
Non si tratta solo di sapere “da chi si viene”, ma di attraversare quella distanza che separa il nostro corpo da quello ancestrale.
Di varcare un confine che, per chi è stato adottato, spesso non è mai stato tracciato.
Chiedere questo non è ingratitudine.
È habeas corpus: portare davanti alla vita la propria identità intera.
Anche se scomoda. Anche se non somiglia al lieto fine che tutti vorrebbero.
Nota: Nel diritto, l’habeas corpus protegge dall’arresto arbitrario. Nell’adozione, può diventare il diritto a non essere espropriati di sé.