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Il viaggio e lo strappo

Riflessione a partire dal viaggio in India per incontrare nostra figlia

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Ricordo come se fosse ieri quel tratto di strada. La jeep sobbalzava sulla terra rossa e polverosa, mentre il paesaggio si faceva sempre più fitto di palme, canali e acquitrini.
Stavamo percorrendo gli ultimi chilometri che ci separavano da nostra figlia, eppure io – seduta dietro, con le mani strette, in tensione – sentivo salire l’agitazione. Avevo un nodo in gola, quasi nausea. Non era solo emozione. Era paura. Paura che lei non ci volesse. Paura che non ci riconoscesse come qualcosa di buono. E sotto sotto, anche una paura antica: la memoria del mio stesso strappo.

Anch’io, un giorno, sono stata presa, portata via, affidata a volti sconosciuti. E ora mi trovavo dall’altra parte, a compiere un gesto simile su un’altra bambina, secondo regole stabilite da altri. Il mio corpo ricordava. Il mio passato si faceva vivo. Stavo tornando figlia mentre diventavo madre per la seconda volta.

Quando siamo arrivati all’istituto, nostra figlia ci è venuta incontro rumorosamente, ma senza avvicinarsi troppo. Non ci ha accolti con un sorriso, ma con la sua vocina suadente che ripeteva strofe di canzoncine religiose. Ci ha studiati. Ci ignorava e ci osservava allo stesso tempo.

Aveva compreso subito che eravamo profondamente diversi. I nostri abiti occidentali, la jeep, le macchine fotografiche, le borse, il cellulare, gli oggetti sconosciuti… tutto parlava una lingua che lei non conosceva.
La sua prima curiosità è andata proprio lì, su quegli oggetti lucidi e rumorosi. Non sulla bambolina indiana che avevo faticosamente cercato nei negozi italiani e portato con cura, né sui quaderni o le matitine colorate.

Due giorni dopo ci è stata affidata. E lei, in hotel, cercava di aprire la porta. Voleva tornare “a casa”. A quel luogo che per noi era un istituto, ma per lei era il suo mondo. All’aeroporto correva dietro alle donne con il sari. Cercava qualcosa che conosceva. Qualcuno che somigliasse alla sua vita. Non eravamo noi.

Aveva ragione lei.

Il nostro amore, il nostro desiderio, le nostre emozioni non bastavano. Perché l’adozione, dal punto di vista del bambino, è prima di tutto una perdita. E noi eravamo – anche – coloro che stavano compiendo quello strappo.

Un dramma che ho sentito ancora più forte quando, il secondo giorno della nostra permanenza, abbiamo incontrato le “ladies”, le ragazze madri che vivevano nella comunità attorno all’istituto.

Ci accolsero con sorrisi, saluti rumorosi e sari colorati. Avevano dovuto rinunciare ai figli, spesso senza alternative. Ce ne parlarono con pudore e dignità. Sister Joicy traduceva per noi quella lingua affascinante che anche mia figlia parlava un poco, fatta di k, r, u.

Ci mostrarono le foto. Quei figli adottati all’estero, nei Paesi nordici, non erano del tutto perduti per loro: vivevano nei loro pensieri, nei loro racconti, nella speranza che un giorno avrebbero capito.
Non c’era la madre biologica di mia figlia, ma c’erano tante madri mancate, tante presenze-assenze. E io ero lì, per portare via una bambina. Ero la protagonista di uno strappo, non solo la destinataria di un dono immenso.

Tornando in Italia, sul volo di ritorno mezzo vuoto, sdraiata accanto a mia figlia per proteggerla da una caduta dal sedile, la osservavo mentre mi dormiva accanto. Ancora così sconosciuta, quella bimba stava per essere catapultata in un mondo altro. E noi eravamo il ponte, il mezzo, ma anche l’ennesimo trauma.

Lo sapevo già. Lo sapeva il mio corpo. Lo sapeva quella parte profonda di me che è stata bambina adottata.
Sapevo che mia figlia stava lasciando tutto ciò che conosceva. Sapevo che la stavamo strappando, anche se con intenzioni buone. Sapevo che, in quel momento, l’amore non basta. Perché l’amore, da solo, non lenisce il trauma.

Pur essendo già madre due volte, sentivo in me anche la figlia. Una figlia che forse avrebbe voluto dire qualcosa, che forse avrebbe voluto tornare indietro anche lei un tempo.

Prima di accomiatarci, le ladies ci circondarono chiassose per portarci una noce di cocco verde, offerta con spontaneità e orgoglio, troppo grande per la nostra valigia. Un frutto che ancora non si vedeva sui banchi dei nostri supermercati. Un tender coconut o ilaneer in malayalam, la lingua del Kerala, dove il cocco è simbolo di ospitalità, purezza e benedizione e viene offerto agli ospiti come gesto di rispetto e gratitudine.
Lo abbiamo preso con un sorriso, nascondendo l’imbarazzo nel capire che non avremmo potuto portarlo con noi. Era pesante, non stava nella nostra valigia già zeppa.

È rimasto lì, in albergo, come qualcosa di prezioso ricevuto ma che non si riesce a portare con sé.
Come la parte dell’identità di nostra figlia che affonda le radici in quella terra.
Come la memoria viva delle donne che l’hanno accudita, lavata, nutrita, accompagnata nei primi anni di vita.
Come la lingua che sentiva intorno a sé ogni giorno, i gesti ripetuti, i profumi del cibo, il ritmo della giornata, i volti familiari.

Come tutto ciò che resta lì, in quell’altro mondo, che per lei era il primo mondo, e che noi – pur con le migliori intenzioni – non potevamo impacchettare né tradurre.
Troppo grande per le nostre “valigie” europee, troppo complesso per le nostre parole rassicuranti, troppo vero per essere ignorato.

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