Un film che non parla di adozione, ma che mi ha fatto pensare all’adozione.
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Il Robot Selvaggio non è un film sull’adozione, almeno non nei suoi temi espliciti. Eppure, guardandolo, ho sentito delle risonanze con la mia esperienza di madre e di figlia: nell’evoluzione del legame tra i due protagonisti, nella trasformazione dell’accudimento in amore, nel lasciare andare chi si è cresciuto, con rispetto e senza possesso.
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Rozzum 7134 è un robot senziente che, a seguito di un naufragio, si ritrova sola su un’isola abitata da animali. Viene attivata per caso dalla fauna locale. È programmata per servire, e inizialmente cerca di entrare in relazione con gli animali, imparando persino la loro lingua, ma tutti la considerano una creatura inquietante, un intruso.
Le cose cambiano quando, inseguito da un orso, Roz cade su un nido di oche, distruggendolo. Resta intatto un solo uovo. Quando l’ochetta nasce, per via dell’imprinting, inizia a considerare Roz come sua madre. E Roz, pur non avendo alcuna esperienza, sceglie di prendersene cura. La chiama Beccolustro.
Roz è un robot in mezzo agli animali. È goffa, fredda, fuori contesto. Non ha il linguaggio giusto, non conosce le regole sociali dell’isola, viene temuta e derisa.
E anche questo, con mia grande sorpresa, mi ha fatto pensare all’adozione.
Perché essere genitore adottivo, soprattutto all’inizio, può voler dire sentirsi fuori posto.
Un po’ robot in un mondo di “genitori naturali”. Circondati da mamme biologiche che parlano di travaglio, allattamento, somiglianze.
E tu lì, a cercare il tuo modo — diverso, ma non meno valido — per essere madre o padre.
Roz non finge di essere come gli altri. Resta se stessa, ma cambia. Osserva, si adatta, impara.
Non cerca di imitare, ma costruisce un modo suo, autentico, di stare nelle relazioni. E piano piano, viene accolta.
Anche questo può essere uno spunto per i genitori adottivi: non devi dimostrare di essere “come” gli altri. Devi solo essere presente, costante, vera.
Per Roz, all’inizio, tutto è meccanico, quasi “programmato”: nutrire, proteggere, insegnare.
Ma col tempo, il prendersi cura si trasforma in istinto: diventa relazione, affetto, desiderio del bene dell’altro.
E qui ho riconosciuto qualcosa del cammino adottivo.
Anche molti genitori adottivi iniziano così: rispondendo a un bisogno, spesso con buona volontà, ma senza quella “chimica” dell’amore di cui tanto si parla.
Non si sentono subito mamme o papà. Il legame, se arriva, arriva dopo. Con il tempo. Con la presenza costante. Con l’ascolto. Con la pazienza.
Roz non nasce madre, ma lo diventa.
E lo diventa nel modo più autentico: non reclamando Beccolustro come “suo”, ma accompagnandolo finché ha bisogno, e poi aiutandolo a volare via.
Beccolustro, da parte sua, cresce con Roz e le vuole bene, ma sente dentro una spinta a cercare il suo posto tra i suoi simili.
Non rinnega Roz, ma sa che, per completarsi, deve andare oltre.
Anche questo mi ha ricordato tanti figli adottivi:
l’amore per la famiglia adottiva può coesistere con il bisogno di cercare le proprie origini.
Non è una fuga. Non è un tradimento. È un volo necessario.
Roz, in quanto madre adottiva solida, non lo trattiene.
Non lo lega a sé con il senso del sacrificio o con l’idea di “aver fatto tutto per lui”. Lo aiuta a essere ciò che è.
E questo, forse, è il gesto più alto della genitorialità:
lasciare che il figlio voli, pur sapendo che quel volo potrebbe portarlo lontano.
Il film, nell’ultima parte, prende un’altra direzione.
Diventa più fantascientifico, si concentra su temi più ampi e si allontana da quella sottile intimità relazionale che tanto mi aveva colpita fino a quel momento.
E in effetti, per me, Il Robot Selvaggio risuona con l’esperienza adottiva solo fino a un certo punto.
Il cammino identitario di Beccolustro viene semplificato: basta ritrovare lo stormo per ritrovare sé stesso. Ma chi è adottato sa che l’identità è fatta di strati, che il ritorno alle origini non chiude del tutto il cerchio, ma spesso ne apre un altro.
Eppure, anche se il film non nasce per parlare di adozione, riesce a evocarla in modo sincero e profondo.
Ci ricorda che l’amore non è dato, si costruisce.
Che essere madre non vuol dire trattenere, ma accompagnare finché serve. E poi restare, anche da lontano, come base sicura.
E che, a volte, il dono più grande è proprio quello di insegnare a volare.
📌 Una nota personale:
In genere, non amo i film di animazione moderni e avevo ignorato Il Robot Selvaggio quando uscì al cinema l’anno scorso (ora è disponibile su diverse piattaforme).
Poi, di recente, mio figlio — il mio figlio naturale — mi ha detto:
“Mamma, guarda che devi vederlo. C’è dentro qualcosa che parla anche di noi, come famiglia adottiva.”
Aveva ragione.
E il fatto che ci abbia pensato mi ha toccata.