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La Parola Mamma

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Vi siete mai soffermati sulla parola mamma? Non nel senso pratico, come quando rispondete di corsa a una chiamata disperata dei vostri figli, ma nel suo suono, nella sua essenza.

Per me, mamma è più di una parola: è qualcosa di magico, quasi trascendentale. Non appartiene solo a questo mondo, ma a un luogo più profondo, invisibile, dove i legami si intrecciano senza tempo.

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C’è una musicalità in questa parola. La M, così rotonda, morbida, la stessa che troviamo in amore. Ma in mamma ce ne sono ben tre! Una lettera che nasce con le labbra chiuse, lo stesso gesto che facciamo prima di un bacio. Una parola che avvolge, che scalda, che contiene.

Eppure, mamma è stata, per me, un viaggio. Anzi, due viaggi diversi. Il mamma immediato, ottenuto con facilità e naturalezza quando è nato mio figlio, e il mamma come conquista, un percorso a ostacoli, quando mia figlia è arrivata da noi. Qui la parola mamma non c’è stata subito.

Lei mi chiamava Teti (storpiatura di Checy, una parola in Malayalam, la sua lingua d’origine). Io, che ho sempre vissuto tra le parole, che avevo scaffali pieni di vocabolari e glossari, non avevo un dizionario di Malayalam. Non esisteva ancora. Ho dovuto aspettare qualche mese più tardi la spiegazione della Jochamma, la suora del suo istituto, che mi ha svelato il significato: lady, sorella maggiore.

Era così che mia figlia mi vedeva: una donna solo un po’ più grande di lei, ma in un certo senso parte del suo mondo di pari, dove adulti e bambini si mescolavano senza distanze.

Poi c’è stato un periodo di passaggio. Forse non ancora del tutto convinta, mia figlia si rivolgeva a me con Teti mamma, come se avesse bisogno di un ponte tra il passato e il presente, tra il mondo che conosceva e quello nuovo in cui era stata catapultata.

E due mesi dopo, il 28 febbraio – una data che ho incisa nel cuore – è accaduto. Non so se per scelta consapevole o per imitazione di suo fratello, mia figlia ha deciso di chiamarmi mamma.

Da quel giorno, sono stata mamma in tutte le sue sfumature: urlata con rabbia, mormorata con stanchezza, ripetuta con bisogno. Ho anche attraversato la fase dello stronza, perché crescere è anche questo: ridefinire con forza i confini, rompere con violenza per poi ricostruire.

E oggi, mi chiama madre.

Una parola che ha un peso diverso, più solenne, più adulto. Madre mi piace. Non è solo mamma gridata tra le stanze, è un riconoscimento. È come se vedesse in me qualcosa di più grande, di più profondo.

Mamma è il calore, madre è il fondamento.
Mamma è l’abbraccio, madre è la colonna.
Mamma è il bisogno, madre è il riconoscimento.

Dire madre non è solo una questione di suono, è un atto di consapevolezza. È vedere in me qualcosa di più grande, un punto fermo, una presenza che resta. Eppure, ogni volta che sento pronunciare mamma, il cuore mi si stringe ancora, mi riporta all’inizio, un inizio non perduto. Perché dentro quella parola c’è tutto: amore, bisogno, protezione, appartenenza. Perché quella parola non importa in quale lingua, in quale tempo, è ancora il filo invisibile che ci tiene unite, per sempre e nonostante tutto.

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