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Vittoria

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Ieri sera ho visto Vittoria. Ne avevo letto recensioni entusiastiche: “un’avventura familiare piena d’amore”, “un racconto umano e profondo”. Ma da persona adottata, posso dire che questo film, per molti versi, mi ha lasciata a disagio e, a tratti, irritata.
Non perché manchi la qualità cinematografica o la verità emotiva dei protagonisti – che, anzi, interpretano se stessi con spontaneità – ma perché, ancora una volta, l’adozione viene piegata al punto di vista dell’adulto: al suo sogno, al suo bisogno, alla sua emozione.

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A mio parere, è un film che può commuovere solo chi non conosce l’adozione. Il suo successo è dovuto al fatto che fa leva sulle emozioni suscitate da una storia di adozione, in particolare da un percorso personale e familiare per arrivare ad adottare – e questo tipo di viaggi adottivi, lo sappiamo, sono sempre una garanzia per commuovere. È una formula che funziona: il desiderio di un figlio, le difficoltà affrontate, l’ostinazione premiata. Ma, ancora una volta, si parla di chi adotta, non di chi viene adottato.

Il film racconta la storia vera di Jasmine, parrucchiera di Torre Annunziata, madre di tre figli maschi, che, dopo la morte del padre, inizia ad avere un sogno ricorrente: una bambina bionda (come lei) che le corre incontro. Quel sogno diventa desiderio, ossessione, progetto. E infine decisione. Anche senza il consenso del marito, anche contro l’evidente perplessità della famiglia. Jasmine vuole una figlia femmina “a tutti i costi” e nessuno la fermerà. Inizia così il percorso per un’adozione internazionale in Bielorussia.

L’ostinazione di adottare una femmina appare come un capriccio. Jasmine, pur di ottenere ciò che desidera, fa carte false durante i colloqui con l’assistente sociale: finge che le andrà bene qualsiasi bambino – come si fa in adozione, dove non si sceglie – ma in realtà pilota il destino. Ha già preso accordi con un contatto privilegiato per avere in abbinamento una bambina, aggirando lo spirito stesso della legge e dell’adozione.

Il film è ben girato, con uno stile che oscilla tra documentario e fiction. Ma quello che racconta è un desiderio privato che diventa azione, senza porsi davvero il dubbio su cosa significhi essere una bambina presa da un orfanotrofio per soddisfare un bisogno adulto. È proprio Jasmine a dirlo chiaramente e più volte: “Abbiamo deciso di prendere una bambina. L’adottiamo.” In dialetto napoletano dice: “Ce pigliammo ’na criatura,” e quel pigliare, così concreto, così fisico, quasi predatorio, è – per chi è stato adottato – ancora più doloroso. Il verbo prendere è rivelatore. Non si adotta per prendere, si adotta per accogliere. E accogliere non è possedere.

È sintomatico – e francamente sconcertante – che Jasmine, che ha la terza media e viene rappresentata come una donna semplice, abituata alle chiacchiere da salone, non sappia nemmeno cosa significhi “ritardo cognitivo”. Ancora più sorprendente è che ignori che un bambino abbandonato e cresciuto in istituto, come spesso accade nei contesti di adozione internazionale, possa avere delle fragilità evolutive. Questo rivela una totale impreparazione, un’ingenuità pericolosa e una sottovalutazione profonda della realtà dell’adozione. Eppure, Jasmine è convinta di poter affrontare tutto con la sola forza del suo desiderio.

Jasmine vuole colmare un vuoto, quello lasciato dalla perdita del padre, ma soprattutto da un momento di noia esistenziale: ha già ottenuto molto dalla vita – una casa, una famiglia, un lavoro che le piace, un contesto di amicizie. Ma l’adozione non è una risposta né a un lutto né a un senso di insoddisfazione.
Certo, le motivazioni personali degli adottanti contano: l’adozione è possibile anche perché c’è una coppia che desidera un figlio, e questo è legittimo. Ma quel desiderio va sorvegliato, lavorato, elaborato. E soprattutto deve essere un desiderio condiviso nella coppia. Perché un bambino non è il rimedio a un dolore, né a un’inquietudine esistenziale.

“L’ho sognata,” dice Jasmine. “Era bionda, mi correva incontro.” Ma noi adottati non siamo sogni altrui. Siamo persone vere, con un passato, un’origine, un trauma spesso indicibile.
Anche il fatto che la bambina del sogno fosse bionda, proprio come Jasmine, suggerisce un desiderio inconscio di duplicazione, quasi una ricerca di una copia di sé. Jasmine appare molto autoriferita, più interessata a dare forma a un’immagine ideale che a incontrare davvero un’altra persona nella sua interezza e nella sua storia.

Il film, purtroppo, non si interroga su tutto questo, anzi lo presenta come normale – e forse per questo mi ha irritata, se non quasi disgustata. Descrive con onestà il contesto familiare – pratico, rumoroso, fatto di piccoli gesti quotidiani ma emotivamente poco sintonizzato – e resta ancorato al punto di vista della madre. I figli già presenti sono quasi invisibili, il marito marginale, se non nel momento in cui salva la figlia – e forse anche lo spettatore – da una scena dolorosa e insopportabile: quella della “prova del cerchio”. Jasmine suggerisce al personale dell’orfanotrofio di far disegnare un cerchio alla bambina per capire se sia “ritardata”. Una scena lunga, fredda, umiliante. Solo Rino, il padre, interrompe quella violenza con un gesto di tenerezza, prendendo in braccio la bambina e restituendole dignità.

Quel momento è, forse, l’unico in cui il film riesce a far intuire la profondità reale dell’adozione: non come salvataggio, non come realizzazione di un sogno, ma come incontro umano tra vulnerabilità e presenza. Eppure, anche lì, il gesto arriva troppo tardi, come riparazione di un sistema di pensiero già corrotto dal desiderio cieco di “avere una figlia”.

Trovo che Vittoria sia un film onesto nella forma, ma parziale nella sostanza. Parla di un desiderio adulto e lo chiama amore. Ma l’adozione, per essere davvero amore, ha bisogno di spostare il fuoco. Di chiedersi chi è davvero al centro. Difatti, la pellicola avrebbe potuto essere intitolata Jasmine.

E allora, mi chiedo: cosa prova Vittoria, quella vera, oggi, sapendo di essere diventata il sogno che qualcuno ha voluto realizzare a ogni costo?


Nota:
Questa riflessione nasce da ciò che il film Vittoria mostra e racconta. Non so quanto aderisca alla realtà dei protagonisti, che potrebbero aver vissuto l’adozione con maggiore consapevolezza di quanto emerga dalla narrazione cinematografica.

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