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Ci sono parole che sembrano semplici.
Che tutti pronunciano.
Che i bambini balbettano quasi per istinto.
Mamma è una di queste.
Ma per chi è stato adottato, questa parola può pesare, graffiare, mancare.
Può significare tutto. O nulla.
Nella storia di chi è nato da una madre e cresciuto con un’altra, “mamma” non è solo una parola.
È un campo minato di emozioni, aspettative, fratture.
Chi ha il diritto di essere chiamata così?
Quella che ha dato il corpo?
Quella che ha dato il tempo?
Quella che c’era alla nascita?
O quella che è arrivata dopo?
Per qualcuno, mamma è un legame da difendere.
Per altri, una ferita da rispettare.
Per altri ancora, una parola da ridisegnare.
Per capire questo, bisogna tornare all’origine.
Mamma è una parola primitiva che nasce da un suono istintivo, spontaneo, emesso dalla bocca del neonato.
È una delle prime espressioni vocali legate alla fame, al bisogno, al conforto.
All’inizio, indica il seno. Il nutrimento.
Con il tempo, diventa la parola della relazione, dell’amore, della cura.
Una voce affettiva, che attraversa le lingue e le culture, ma che porta con sé strati profondi di significato.
È carica di simboli, legami, aspettative. E anche di dolori.
E per chi è stato adottato, questa parola può diventare un enigma.
Può confondere, ferire, mancare.
Perché il legame bocca-mamma, così fondamentale nei primi mesi di vita, non si forma con la madre adottiva.
I codici profondi del corpo e della memoria affettiva glielo ripetono.
Chi è allora la mamma?
Quella che ha dato il corpo, ma è sparita?
O quella che è arrivata tardi e vuole esserlo a tutti i costi?
Per qualcuno, mamma è una carezza.
Per altri, è un pugno.
Per altri ancora, è una parola che si ingoia, ma non si pronuncia.
E non esiste una risposta giusta.
Esiste solo la libertà, per ogni adottato, di scegliere che significato dare a quella parola.
Quando e se usarla.
Se riscriverla. Se rifiutarla. Se donarla.
Perché mamma non è un titolo.
È un legame che va costruito da zero, controvento,
con pazienza, con dolore.
Soprattutto quando la ferita è doppia.
Per una madre di nascita che se ne va, o viene esclusa dalla storia,
c’è una madre adottiva che arriva, e cerca di riempire tutto.
Di coprire. Di sovrapporsi. Di guarire.
Che ha bisogno di essere madre anche nel corpo, nello sguardo,
nell’appartenersi.
C’è un amore che vuole essere visto, riconosciuto, ringraziato.
E allora, a volte, l’amore quasi diventa troppo.
Troppo rumoroso. Quasi invadente.
Un amore che può soffocare più che scaldare.
Un amore che non consola, ma invade, travolge, satura,
fino a togliere lo spazio per pensare, sentire, scegliere.
E il figlio si perde.
Perché, a volte, non cerca carezze.
È ancora affamato di verità, non di coccole.
E se non riesce a chiamarti mamma, non è problematico.
È solo qualcuno che sta cercando di tenere insieme i pezzi,
senza farsi portare via anche la voce.