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Fermatevi un solo attimo.
Provate davvero a pensare a cosa significa costringere un individuo a recidere ogni legame con il proprio passato, con la vita che ha vissuto, gli affetti, le abitudini… e fingere che la sua esistenza sia iniziata altrove, in un “nuovo mondo”, in una “nuova famiglia”?
Questo è quello che fa l’adozione chiusa, l’adozione legittimante.
Come si può negare a qualcuno il diritto di conoscere se stesso nella propria interezza? Come si può costruire la sua vita su una menzogna, per soddisfare un sogno altrui? Come si può infliggere un’ingiustizia così grande, spacciandola per un grande gesto d’amore?
L’adozione, nel suo atto iniziale, è un atto unilaterale: è una decisione adulta, un desiderio adulto. Eppure, proprio perché l’adottato non ha scelto, dovrebbe almeno avere il diritto di sapere. Di sapere da dove viene. Di sapere chi è.
E invece, il suo passato viene cancellato, sigillato, nascosto come se non fosse mai esistito. Ma quando, da adulto, prova a riprendersi la propria storia, non gli viene restituita con naturalezza: viene invece sottoposto a valutazioni, esami, consulenze. Come se il problema fosse lui, e non l’ingiustizia che ha subito.
Ma non è fragile chi cerca la verità.
Chi cerca la verità è forte abbastanza da sfidare una narrazione edulcorata che vuole l’adozione come un atto d’amore, omettendo il prezzo che essa impone agli adottati.
Sì, gli adottati sono menomati – purtroppo così sono classificati in letteratura – ma non solo dai traumi infantili, non solo dall’abbandono, ma da un sistema che li costringe a sostenere una bugia, a negare la loro identità.
Pensiamoci davvero. Pensiamo a cosa significhi dire a qualcuno che in fondo la parte più significativa della sua vita è iniziata “da quando è stato adottato”. Pensiamo alla violenza silenziosa di questo atto.
Si parla di apertura verso le origini negli ultimi anni. Finora sono state parole vuote, poiché molti nutrono timori e preoccupazioni, e la legislazione italiana è una delle più rigide in materia, non facilita certo la ricerca delle proprie radici.
Ma poi, se ci pensate bene, concedere a posteriori la possibilità di cercare le origini non cancella l’ingiustizia iniziale di averle negate.
C’è un popolare refrain che dice che ogni bambino ha diritto ad avere una famiglia. Su questo non si può che essere d’accordo. E se vogliamo mantenere il concetto adultocentrico di “bene ricevuto”, va aggiunto che fare del bene significa farlo nel modo giusto, e non si può costruire qualcosa di positivo partendo da un torto.
L’adozione chiusa ha dimostrato i suoi limiti, spesso risponde più ai bisogni della coppia che a quelli del minore.
L’adozione aperta suscita preoccupazioni, si teme la difficoltà di dialogare con le famiglie biologiche, si teme che questo incontro possa “destabilizzare tutti”. È vero, è un dialogo complesso, ci vuole prudenza, ma evitare possibili conflitti equivale a dire che la famiglia adottiva non vuole complicazioni, chiedendo un ulteriore sacrificio al figlio. Perché spesso, per quel figlio, conoscere qualcosa, anche se doloroso, è preferibile al vuoto.
Le informazioni sulle origini non dovrebbero essere un privilegio concesso a 25 anni o dopo 100 anni a chi è nato da parto in anonimato, e forse ottenibili dopo anni di attesa del responso del tribunale; dovrebbero essere disponibili fin dall’inizio, permettendo all’adottato di crescere con una consapevolezza completa di sé.
Tentare di proteggere un bambino, un ragazzo, un giovane adulto dalla sofferenza negandogli la verità è inutile; quella sofferenza esiste già, anche a livello inconscio, e rischia di esplodere in modo amplificato in qualunque momento. Non di rado i genitori adottivi raccontano di primi anni sereni seguiti da crisi identitarie devastanti.
È tempo di abbracciare un nuovo modello di adozione, ispirato all’adozione aperta, dove genitori affidatari, adottivi e biologici collaborano armoniosamente nel percorso di crescita del bambino, pensando per davvero al bene del bambino.
In questo approccio, non c’è spazio per competizioni. Il bambino dovrebbe essere accompagnato da adulti che si prendono cura di lui, senza che una coppia prevalga sull’altra.
Perché la storia di un bambino adottato è unica e richiede un percorso distinto rispetto a quello di un figlio biologico. Perché è il bambino che arricchisce diverse famiglie con la sua presenza, e sono queste famiglie che, insieme, onorano il suo diritto a conoscere e vivere pienamente la propria identità.