Tempo di lettura: 15 minuti
Sabato scorso ho partecipato a un seminario sul tema del Replacement Child, il “figlio sostitutivo”. Un argomento complesso, denso, doloroso, ancora poco conosciuto, ma che vanta un corpus significativo, solido e interdisciplinare: psicologia, dinamiche familiari, cultura, storia e autobiografia si intrecciano per raccontarne l’impatto.
Leggi tutto: Thi MaiLo studio più completo è quello di Martin A. Schellinski. Ma già nel 1964 Sidney Cain, insieme a sua moglie Mary Cain, introdusse formalmente questo concetto nella letteratura psicologica. Più di sessant’anni fa. Eppure, non è mai stato davvero accostato all’adozione. E questo mi fa pensare.
Ho ascoltato con attenzione le parole del relatore dott. Cazzaniga: “Il figlio sostitutivo vive un lutto ereditato, compete con un’idea, non con un essere reale. E questa competizione è perdente in partenza. Ne derivano senso di colpa, difficoltà relazionali, solitudine interiore, e spesso un’attenzione ansiosa che non è per lui, ma per l’assenza che incarna.”
Parole che risuonano fortemente in me, come figlia adottiva.
La condizione adottiva è già, di per sé, piena di domande irrisolte, di vissuti che faticano a trovare parole. Se poi si è anche figli sostitutivi, tutto si amplifica. È come se venissimo al mondo per lenire un dolore che non ci appartiene, per consolare qualcun altro il cui lutto diventa più forte della nostra presenza. Come se il vero protagonista della nostra vita fosse qualcun altro: il figlio mai nato, quello perso, quello idealizzato. O chi vive quella perdita.
In tanti film che trattano di adozione, il focus è sempre sull’adulto e sul suo desiderio. È particolarmente evidente nel film spagnolo Thi Mai del 2017, che si presenta come una commedia leggera, ma che mi ha sconcertata fin dalla trama. Surreale.
Carmen, una madre in lutto per la morte della figlia, scopre che quest’ultima aveva inoltrato una domanda per adottare una bambina vietnamita. Così, travolta dal dolore e dall’idea di poter “portare avanti” il desiderio della figlia, parte per il Vietnam con due amiche per cercare comunque di ottenere l’adozione della piccola Thi Mai.
Il terzetto – goffo, rumoroso e tratteggiato in modo volutamente caricaturale – ricalca il cliché cinematografico della compagnia di donne in trasferta. Il film si snoda tra gag chiassose, scontri culturali e situazioni improbabili, fino al lieto fine in cui Carmen riesce, forzando ogni regola, a adottare Thi Mai.
Ma il punto è: perché, e per chi?
Il film avrebbe potuto benissimo intitolarsi Carmen & Co.. La bambina appare tre, forse quattro volte, sempre in modo marginale. È bellissima, come una bambola. Ed è proprio questo a colpire Carmen e le sue amiche. A Thi Mai non viene mai dato vero spazio o parola – complice anche la barriera linguistica. Ma nessuna delle tre donne si è preoccupata di imparare qualche parolina in vietnamita prima del viaggio. Contravvenendo alle regole, Carmen la incontra e le dice che sarebbe andata ad abitare in un posto bellissimo, la Spagna, come se il Vietnam fosse da meno.
Thi Mai non è un personaggio: è un simbolo. È il rimedio, l’occasione di salvezza per Carmen. È un “sostituto”. La piccola non è neppure ritratta nella locandina del film. Questo è l’aspetto più disturbante: la bambina non viene adottata per essere vista, ascoltata, accolta. Viene adottata perché serve a qualcun altro.
Ecco cos’è il Replacement Child: quando il bisogno dell’adulto è così ingombrante da sovrastare l’identità del figlio. Quando la motivazione profonda dell’adozione non nasce dall’ascolto della storia e del dolore del bambino, ma dal desiderio – anche comprensibile, per carità – di tamponare una perdita. Come se bastasse mettere un’altra persona dentro un vuoto per riempirlo.
Nel film, Carmen arriva persino a fingere che la figlia fosse sposata e coinvolge un uomo appena conosciuto – il simpatico Andrés, omosessuale e attore mancato – nel ruolo di “falso marito”. Lo fa con leggerezza, come se forzare una procedura internazionale di adozione fosse solo un piccolo inconveniente burocratico, come se in un Paese del Terzo o Quarto mondo si potesse fare e disfare a piacimento.
Le immagini e le musiche locali danno un tocco esotico alla storia, ma non c’è alcun desiderio reale di conoscere il Paese d’origine della bambina. Anzi, usanze e abitudini sono trattate con ironia o guardate come stranezze. La lingua viene storpiata. È una storia profondamente occidentale, eurocentrica, paternalista.
L’idea sottostante è che “noi” possiamo andare, scegliere, prendere. Come se bastasse il desiderio e un po’ di determinazione.
Ma l’amore non si improvvisa. Le relazioni non si sostituiscono.
Thi Mai, nel film, è tutto questo: il balsamo, la cura, il conforto. Ma è anche invisibile. Come lo sono spesso i figli adottati nella narrazione edulcorata dell’adozione. Quella narrazione in cui l’adulto è l’eroe e il bambino lo sfondo. Dove si parla tanto del desiderio dei genitori e poco del diritto del figlio alla propria storia.
E quando il figlio è anche un figlio sostitutivo, come in questo caso, la sua identità si costruisce su fondamenta instabili: non potrà mai essere davvero sé stesso, se deve colmare un vuoto altrui.
Il film, purtroppo, ridicolizza anche la complessità del processo adottivo, con uno stile da commedia demenziale alla americana, dove ogni regola può essere piegata e ogni realtà semplificata.
Ma chi vive davvero l’adozione – chi magari ci ha messo anni per ottenere un abbinamento, o ha dovuto affrontare mille ostacoli burocratici e psicologici – non può che trovare questa storia grottesca e offensiva.
Thi Mai è un personaggio di finzione. Ma comunque mi chiedo: come crescerà? Cosa sentirà un giorno, quando scoprirà di essere stata adottata perché la madre di un’altra l’ha voluta con sé?
Quando capirà che era il dolore di qualcun altro, il bisogno di qualcun altro, a determinarne la sorte?
Ecco, il film può anche far sorridere chi non ha mai pensato all’adozione con occhi profondi.
Ma per chi è figlio adottivo – e magari anche figlio sostitutivo – lascia l’amaro in bocca.
Quando si racconta una storia di adozione, serve rispetto.
E serve, soprattutto, mostrare davvero chi è quel bambino. Non quello che rappresenta.